Il giornalismo che cerca la verità: “Il caso Spotlight”

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In origine fu Orson Welles con il suo capolavoro Quarto potere (Citizen Kane, 1941) ad offrire, per primo, una panoramica – anche se ancorata, in parte, al livello di fiction – del mondo della stampa e del giornalismo. Solo con l’avvento degli anni Settanta e del film di Alan J. Pakula Tutti gli uomini del presidente (All the President’s Men, 1976), pietra miliare da quattro premi Oscar e apripista verso il genere del biopic cronachistico, il cinema ha iniziato a dedicare attenzione verso la possibilità di offrire agli spettatori e all’opinione pubblica, un resoconto degli eventi più eclatanti attraverso il punto di vista giornalistico e della stampa.

Nella successione delle decadi, non è mancato l’impegno di registi del calibro di Oliver Stone, Michael Mann, Billy Ray, Joel Schumacher, David Fincher di confrontarsi con i fatti di cronaca (nera e non) della società moderna, rispettivamente con film come Salvador (id., 1986), Insider – Dietro la verità (The Insider, 1999), L’inventore di favole (Shattered Glass, 2003), Veronica Guerin – Il prezzo del coraggio (Veronica Guerin, 2003) e Zodiac (id., 2007). Ultimo arrivato nel palmarès dei film-inchiesta è il nuovo lavoro di Tom McCarthy, Il caso Spotlight (Spotlight, 2015).

Presentato fuori concorso alla 72ª Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Il caso Spotlight ricostruisce, in maniera dettagliata ma senza appesantimenti né retorica alcuna, la vera inchiesta giornalistica del Boston Globe avvenuta nel 2001 con l’obiettivo di portare a galla gli abusi di pedofilia da parte di alcuni sacerdoti di Boston, avvenuti trent’anni prima e insabbiati dall’arcidiocesi. Con mano sicura e un’aria immersiva e introspettiva, vista la quasi totalità delle riprese negli interni della redazione del Boston Globe, McCarthy introduce, fin dalle battute iniziali, la squadra di giornalisti che dà il titolo al film: il neo direttore Marty Baron (Liev Schreiber), Walter Robinson (Michael Keaton), Michael Rezendes (Mark Ruffalo), Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams) e Matt Carroll (Bryan d’Arcy James).

Una squadra affiatata, unita, che dà vita ed energie al proprio lavoro di giornalisti investigativi, dediti a far luce, a portare sotto la lente uno dei più grandi scandali taciuti dell’area urbana di Boston. Un’indagine, un’inchiesta quella di Il caso Spotlight che avvince come il thriller politico State of Play (id., 2009, altro grande film sul potere del giornalismo, nonostante rientri nella categoria della fiction cinematografica) e mostra senza remora alcuna l’omertà, l’indifferenza e la copertura dei riprovevoli atti al centro della vicenda da parte di chi detiene il potere. Sono giornalisti armati di coraggio e in cerca della verità quelli di Il caso Spotlight, uomini e donne che devono fare i conti con un sistema corrotto, chiuso e voltagabbana che, parimenti, rischiano la propria professione e l’incolumità pur di rendere giustizia a quelle persone senza voce che da una vita sopportano il peso di un qualcosa di inconfessabile.

Rispetto ad altre pellicole del genere, il vero punto di forza del film di McCarthy risiede nella capacità di mostrare sul grande schermo non solo ed esclusivamente il cinismo e il distacco di chi, giorno e notte, si occupa di casi di cronaca scottanti ma – soprattutto – le ripercussioni nelle vite personali e intime dei singoli giornalisti, i quali devono scontrarsi con la realtà dei fatti e sopportare il dramma delle vittime che non hanno avuto giustizia, sullo sfondo di una America pre/post undici settembre e in piena transizione.

Merito di un cast in perfetta armonia, in cui spiccano le magnifiche interpretazioni di Mark Ruffalo e Michael Keaton, senza essere di meno quelle della canadese Rachel McAdams e del caratterista Stanley Tucci, e di una regia minimalista ma funzionale e sicura di sé, Il caso Spotlight segna il ritorno del cinema cronachistico, un lungometraggio che ha tutte le carte in regole per entrare nell’Olimpo dei grandi film di inchiesta al pari del già citato Tutti gli uomini del presidente, non solo per la sicurezza di essere un lavoro cinematografico senza falle o lacune per tutta la sua durata di centoventi minuti, bensì per il fatto di essere capace di far conoscere – nei minimi dettagli – un’altra pagina di cupa cronaca a stelle e strisce, senza fronzoli e senza far ricorso ad alcun tipo di edulcorazione per timori o altro.

- 11/12/2017

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