Cosa si nasconde dietro l’esplosione (apparentemente inspiegabile) del reattore di una centrale nucleare in Cina? Chi si cela a ridosso degli sconvolgimenti finanziari dei titoli quotati in borsa? Interrogativi, questi, che si pongono sia gli agenti dell’Fbi sia quelli dei servizi di intelligence militare cinese. Al sicuro nell’ombra, qualcuno ha dato il via ad un attacco informatico potenzialmente devastante che potrebbe portare ad un escalation inimmaginabile. Senza una vera pista da seguire e con informazioni carenti, federali e secret service devono giocare la loro unica carta a disposizione: chiedere la collaborazione di Nicholas Hathaway (Chris Hemsworth) hacker che sta scontando una pena di quindici anni e che tempo prima aveva scritto proprio una parte di quel codice ora utilizzato nell’attacco malevolo. Liberato in cambio di aiuto, Nick entra nella task force capitanata dall’agente speciale dell’Fbi Carol Barrett (Viola Davis) e di cui fanno parte Chen Dawai (Leehom Wang) vecchio amico-hacker di Nick ed ora ufficiale militare, sua sorella Lien Chen (Tang Wei), esperta informatica e il Marshal Mark Jessup (Holt McCallany), quest’ultimo con il compito di sorvegliare Hathaway. In un susseguirsi di mete, da Chicago a Los Angeles, fino a Hong Kong per poi arrivare a Giacarta, il cappio intorno al collo dei criminali informatici si stringe sempre di più, portando Nick ed i suoi a scoprire chi veramente si cela dietro tutto questo.
Sono passati ben sei anni dall’uscita di quel Nemico pubblico (Public Enemies, 2009) con cui Michael Mann ha fatto scoprire (o riscoprire) la “leggenda” di John Dillinger, uno dei più famosi criminali d’America degli anni ’30. Durante questa “pausa” dalla macchina da presa, si è sentita la mancanza del nostro caro regista di Chicago. Ma, quando si tratta di Mann, ogni attesa ripaga. E tutto questo lo dimostra il suo ultimo lavoro, Blackhat (id., 2015). Opera manniana n. 11, Blackhat si inserisce alla perfezione in quel caro e amato genere del thriller metropolitano che – a partire da Strade violente (Thief, 1981) – ha segnato grandiosamente il percorso stilistico e filmografico di Mann. Non un tema, non uno stilema è stato abbandonato indietro in Blackhat: film 3.0 nella carriera del regista che qui si “evolve” in un cyber thriller metropolitano. La firma autoriale, l’amore e la dedizione per gli spazi urbani e notturni illuminati dalle centinai di migliaia di luci dei grandi palazzi fatti di vetro e acciaio, non viene omessa nel nuovo film di Mann. Continuum della sua personalissima riflessione esistenziale dell’uomo e della sua posizione all’interno del mondo, Blackhat è un lungo “viaggio” negli animi, nelle esistenze di ogni singolo personaggio. Come Frank di Strade violente, Will Graham di Manhunter, Vincent Hanna e Neil McCauley di Heat – La sfida, i nuovi personaggi manniani si muovono (sulle strade all’interno di auto su cui le luci, le città stesse si riflettono o per aria, a bordo di aerei e elicotteri) e vivono all’interno di queste grandi metropoli. Città non relegate ad una mera funzione di sfondo ma innalzate (come nei suo precedenti lavori) a vere e proprie protagoniste della pellicola. Che sia lo skyline diurno e notturno di Los Angeles o quello di Hong Kong, anche in Blackhat la città è il luogo, il punto originario in cui tutte le storie, le vicende prendono vita, si plasmano. L’attacco informatico al cuore delle strutture che reggono occidente e oriente porta la squadra interforze di Nick a spostarsi in cerca di indizi e prove da una parte del globo all’altra, da una città americana (in questo caso la tanto cara L.A.) ad una asiatica (Hong Kong) tutti coscienti che ogni mossa, ogni errore potrebbe portare ad un nuovo attacco o alla loro stessa morte. A partire da questa reale consapevolezza, i personaggi di Blackhat cercano in tutti i modi di recuperare quel tempo perduto andando ben oltre i limiti di ciò che è concesso e possibile. Così come in Miami Vice (id., 2006) in Blackhat assistiamo a quello che è un vero e autentico ampliamento non solo squisitamente di genere ma anche di confini. Rico Tubbs e Sonny Crockett in Miami Vice “abbattevano” quelle barriere che non gli permettevano di “vivere” una vita altra al di fuori di quella da poliziotti; stessa identica cosa fa Nick, cercando di abbattere le barriere del suo passato e recuperando, così, quel tempo sottrattogli. «Ciò che conta è dove ti trovi adesso, non dove sei stato» dice Lien a Nick in una delle più belle e introspettive sequenze del film. Perché persino quando il mondo si trova sull’orlo del punto di non ritorno, Mann concede una possibilità all’amore, alla vita ed a un nuovo inizio. Una fuga dal reale (e dal mondo) capace di dare nuove possibilità a chi sa di non averne più. Nel campo-controcampo tra Lien e Nick si assiste a quella conoscenza intima, privata degli animi umani. Animi che hanno sofferto, combattuto ma non si sono arresi nonostante non ci fosse più tempo a disposizione (e Neil McCauley in Heat ne è l’esempio lampante). Come tutta la tradizione manniana, Blackhat si conferma un film di incontri, scontri e, in questo caso, di (re)incontri (l’abbraccio fraterno tra Nick e Chen, il nuovo “incontro” tra Barrett e lo spettro dell’undici settembre in cui perse la vita suo marito) ma – importantissimo – così come tutti i suoi precedenti lavori è un film sul vedere che trova la sua forma ultima nello sguardo (non solo autoriale).
«Se guardi con i miei occhi, cosa vedi?» domanda Chen a Nick. Verrebbe da rispondere che vediamo il mondo, la vita e, inevitabilmente, anche la morte. Blackhat è un film in cui si muore e si vede morire, affinché la vita e il mondo stesso possano continuare ad esistere. Il sacrificio di alcuni per la salvezza di molti. È il destino tragico che spetta ai suoi personaggi. Come Neil McCauley o il Vincent di Collateral (id., 2004) che perdono la vita proprio nella città in cui tutto ha avuto inizio, la stessa sorte tocca a Barrett, Mark e Chen, morendo tra le strade di Hong Kong sotto una pioggia di proiettili (resa ancor più emotiva da alcuni brevi ralenti) pur di adempiere al proprio dovere. Non solo incontri e scontri ma vi sono perfino separazioni: l’ultimo, nostalgico sguardo di Lien a suo fratello; il campo-controcampo di ciò che vede per ultimo Carol Barrett morente ovvero un grattacielo, “simbolo” del suo dolore mai superato. Le strade si dividono brutalmente e chi sopravvive deve andare avanti. A consegnare tutto questo ci pensa la triangolazione di sguardo tra regista – macchina da presa – attore – spettatore. Ed è questo l’elemento che risalta in Blackhat, quello di uno sguardo che va oltre i confini, verso l’orizzonte inteso non solo come spazialità visiva ma contemporaneamente come metafora: nonostante sia un regista embedded all’interno dell’establishment hollywoodiano, Mann se ne discosta ancora una volta andando oltre i limiti imposti dalle major. La sua è la più personale, privata visione del mondo e delle cose. Fin dalle battute iniziali di Blackhat si respira quell’aria, si percepisce quella passione cinematografica con cui il nostro regista ha sempre regalato film immensi e indimenticabili. Passione per un epoca che non c’è più, quel periodo d’oro della Hollywood classica che (ri)vive nelle storie dell’autore di Chicago. Dolly dall’alto, panoramiche di un’ampiezza incredibile e con una profondità di campo che lascia senza fiato, il tanto amato campo-controcampo sono solo alcuni degli elementi classici sempre stati presenti nella filmografia di Mann che trovano lo stesso spazio all’interno del suo nuovo film. Da questa classicità, da questa “contemporaneità classica” questo solido thriller metropolitano arriva all’inevitabile resa dei conti: quando il nemico non è più un “fantasma” ma un essere con un volto e fatto di carne ed ossa, tutti i regolamenti dei conti possono essere portati a compimento. Rimasto solo lui e Lien, Nick avrà modo di scontrarsi con la sua nemesi. In una magistrale scena di massa di puro impatto visivo, Nick pareggia ciò che era rimasto in sospeso non con una vendetta ma con giustizia. Ed è qui che il suo passato, quello che c’era prima “muore”, smette di esistere. Diversamente da tutti gli altri personaggi manniani che concludevano la loro “corsa” terminale della propria esistenza o con la morte o con l’(im)possibilità di fuoriuscire dalla soffocante realtà, Nick insieme a Lien è veramente, l’unico che riesce a fuggire da tutto: dal passato, dai limiti e superando i confini della vita stessa. Se Max in Collateral e Sonny e Rico in Miami Vice si rendono conto che la fuga è impossibile, per Nick, uomo precedentemente senza tempo, la parola impossibile ormai non esiste più, è cancellata.
Michael Mann con Blackhat è riuscito in quello che era il suo intento: superare se stesso ed andare ancor più oltre la sua stessa filmografia. Portare sul grande schermo, ancora una volta, il mondo in cui uomini e donne si muovono, vivono, lottano, amano e muoiono. Non più losers quindi ma personaggi vincenti che finalmente riescono a vedere oltre, ove le nubi si diradano ed una nuova vita è fattibile. Emozionante, toccante e unico, di una potenza visiva sfolgorante (guardate la fotografia e vedrete) Blackhat si conferma giù un classico e nuovo capolavoro (ex aequo con Heat e Collateral) del regista che, con molte probabilità, offre uno sguardo di fuga verso mete (cinematografiche) ancora non raggiunte. Grazie Mr. Mann, grazie per questi Grandi Film che sanno ancora farci emozionare e – soprattutto – vivere.