L’utopia pacifista

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Εὐριπίδου Ἑλένη, στ. ,α ρ’ ν’ α’ – ,α ρ’ ξ’

Elena

Ἄφρονες ὄσοι τὰς ἀρετὰς πολέμῳ

κτᾶσθε δορὸς ἀλκαίου

λόγχαισι καταπαυόμενοι

πόνους θνατῶν ὰπαθῶς˙

εἰ γὰρ ἄμιλλα κρινεῖ νιν

αἴματος, οὔποτ’ ἔρις

λείψει κατ’ ἀνθρώπων πόλεις˙

………………….

ἐξὸν διορθῶσαι λόγοις

σὰν ἔριν, ὦ Ἑλἐνα.

Euripide, Elena, vv. 1151-1160

Pazzi quanti gloria con la guerra

cercate e con le punte

di forte lancia v’illudete

di far cessare le pene degli uomini;

se infatti lotta decide

di sangue, mai contesa

lascerà le città degli uomini;

……………………….

eppure si sarebbe risolta con parole

la tua contesa, o Elena.

Euripide

C. Iuli Caesaris Commentariorum Libri VII Caput XXVIII

XXVIII. Hostes re noua perterriti, muro turribusque deiecti in foro ac locis patentioribus cuneatim constituerunt, hoc animo ut, si qua ex parte obuiam [contra] ueneretur, acie instructa depugnarent. Vbi neminem in aequum locum sese demittere, sed toto undique muro circumfundi uiderunt, ne omnino spes fugae tolleretur, abiectis armis ultimas oppidi partes continenti impetu petiuerunt, parsque ibi, cum angusto exitu portarum se ipsi premerent, a militibus, pars iam egressa portis ab equitibus est interfecta. Nec fuit quisquam cui praedae studeret. Sic et Cenabensi caede et labore operis incitati non aetate confectis, non mulieribus, non infantibus pepercerunt. Denique ex omni numero, qui fuit circiter milium XL, uix DCCC, qui primo clamore audito se ex oppido eiecerunt, incolumes ad Vercingetorigem peruenerunt. Quos ille multa iam nocte silentio sic ex fuga excepit, ueritus ne qua in castris ex eorum concursu et misericordia uulgi seditio oreretur, ut procul in uia dispositis familiaribus suis principibusque ciuitatum disparandos deducendosque ad suos curaret, quae cuique ciuitati pars castrorum ab initio obuenerat.

Capitolo 28 del libro VII dei Commentari sulla guerra Gallica di C. Giulio Cesare

28.1. I nemici, terrorizzati da quell’azione inaspettata, scacciati dal muro e dalle torri, si disposero a cuneo nella piazza e nei luoghi più aperti, con l’intenzione di combattere se fossero stati attaccati da qualche parte. 2. Quando videro che nessuno scendeva allo scontro in spazio aperto, ma che anzi i Romani si distribuivano tutt’intorno al muro, temendo di perdere completamente la speranza della fuga, gettarono le armi e raggiunsero, affl uendovi con impeto, le estreme zone della città; 3. qui, una parte di loro, schiacciata nell’angusto varco delle porte, fu uccisa dai soldati, un’ altra parte, che era già riuscita a passare le porte, fu sterminata dalla cavalleria. 4. Nessuno pensò al saccheggio: i soldati erano così furiosi sia per la strage di Cènabo sia per le fatiche dell’ assedio che non risparmiarono né vecchi, né donne, né bambini. 5. Alla fi ne, di tutto il numero degli abitanti che erano circa quarantamila, a stento quegli ottocento che si erano gettati fuori dalla città alle prime grida raggiunsero incolumi Vercingetorìge. 6. Questi, a notte già inoltrata, accolse in silenzio i fuggiaschi, temendo che il loro arrivo e la compassione della folla facessero nascere una rivolta nell’accampamento; dispose lungo la strada, fi n da lontano, suoi stretti collaboratori e capi della città perché li separassero e li conducessero presso i loro compagni, nei quartieri del campo assegnati fi n dall’inizio a ogni popolazione. (Trad. L. Montanari)

Machiavelli

Machiavelli, Il Principe, cap. XV

Resta ora a vedere quali debbano essere e’ modi e governi di uno principe con sudditi o con li amici. E, perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito, scrivendone ancora io, non essere tenuto prosuntuoso, partendomi, massime nel disputare questa materia, dalli ordini delli altri. Ma, sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché elli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare, impara più tosto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità.

Bucha, fossa comune

Cronaca di un massacro. È la presa di Avarico, raccontata dallo stesso generale che ha comandato il massacro: Giulio Cesare, che descrive con ammirevole sobrietà stilistica e agghiacciante distacco la nuda realtà di una guerra. Grande pagina di grande storico, che non nasconde nemmeno le proprie efferatezze, non le spiega e non le giustifica. Ma neppure se ne vanta. Racconta. Unico rilievo, e psicologico: il rancore, la rabbia degli assedianti, per la durata e per la fatica dell’assedio. La riflessione deve partire da qui: dal racconto. Il giudizio morale va sospeso. E vanno messe da parte anche le aspirazioni utopistiche. Non perché non siano legittime, ma perché non riguardano l’avvenuto. È accaduto, e quella volta lo storico non ha nascosto niente. Il massacro, però, non era il ptimo della vita dei sapientes sulla terra e non fu l’ultimo: ce ne furono da quando l’homo sapiens, come del resto gli altri mammiferi, ha voluto delimitare il proprio territorio, e da allora si è ripetuto molte altre volte. Si sta ripetendo. È solo su questo, sul fatto che avviene, che forse dovremmo riflettere: se sia una coazione a ripetere, una violenza inevitabile. E se sì, perché? Per ultimo, la domanda più difficile: si ripeterà altre volte? Sarà possibile evitarlo? Possibile agire – agire, non pensare, tanto meno parlare – in modo che non si ripeta? Io non ho risposta a questa domanda. Le “anime belle”, così ben descritte da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, sono pregate di non commentare: l’orrore, o l’abisso, di questa realtà è troppo reale perché ci si possa salvare individualmente la coscienza con qualche pensierino di ripudio della guerra, di nobile pacifismo ad oltranza, come sembra suggerire perfino Euripide. Ma le utopie, i proclami, l’invocazione e l’ingiunzione di deporre le armi, non porterebbero da nessuna parte, e non eliminerebbero dalla storia i massacri, se chi per primo quelle armi le ha prese non ha nessuna intenzione di deporle. È su questo che dobbiamo riflettere: possibile – possibile, dico, reale, realizzabile e non solo giusto, morale, auspicabile: con la nuda invocazione della giustizia, con la convizione morale e gli auspici di conciliazione non si va da nessuna parte, se anche solo uno dei contendenti non rispetta la giustizia, non ha morale, non ha intenzione di arrivare a una conciliazione – è possibile, dunque, realistico, riuscire a evitarli, i massacri, a impedire che si ripetano? Si risponda solo a questo: se si ha una risposta. Io non ce l’ho. Ma vorrei averla. Deve, però, essere una risposta che non sia solo un programma, un manifesto, e non smentita dalla realtà, ma sia reale, attuabile, e non soltato auspicabile, o il desiderio nobile di ralizzare il paradiso sulla terra, e ci si affidi infine solo alle buone intenzioni dei contendenti. Se contendono, vuol dire che le intenzioni non sono buone. Di buone intenzioni, dice il proverbio, è lastricata la via dell’inferno. E – se qualcuno non se n’è ancora accorto – la storia, la nostra storia, la vita, la nostra vita: sono l’inferno che non vogliamo guardare. Dice Cesare che di 40.000, quanti erano gli abitanti di Avarico, si salvarono solo 800. Gli altri furono uccisi tutti, anche i vecchi, anche le donne, anche i bambini.

Mi si potrebbe obiettare, e mi obietto io stesso, che se nessuno comincia a pretendere – pretendere! – che non si ricorra alla guerra, che le contese, i conflitti si risolvano intono a un tavolo, con una trattativa – coi λόγοις di cui parla il Coro dell’Elena di Euripide – allora sì non si va da nessuna parte, non si fa un solo passo sulla via di porre fine alle guerre. Esempi illustri non mancano. E qualcuno ha perfino ottenuto successo: Gandhi, per esempio, il quale, nonostante Churchill lo definisse arrogantemente, con un disprezzo tipicamente britannico, lo stesso di molti statunitensi per gli afroamericani, “un selvaggio con il perizoma”, ebbe tuttavia la forza, il potere – sì, la forza, il potere – disarmato di piegare l’armatissima Gran Bretagna e ottenere l’indipendenza del suo popolo, gli Indiani. Ma non funziona sempre. Non quando uno dei contendenti ha di mira solo la distruzione, l’annientamento dell’altro. E questo accade quasi sempre. Riflettiamoci: il dibattito politico, e non solo politico, tra di noi, anche solo tra di noi, ha ormai raggiunto livelli di animosità, di rancore, diciamolo pure, di odio irreprimibile, che riesce spesso assai dfficile immagnare che una contesa, anche solo ideologica, si possa risolvere discutendo, invece che offendendosi, litigando, magari prendendosi a pugni e peggio. Si assiste anzi allo spettacolo che perfino chi afferma di essere pacifista, e pacifista radicale, in perfetta contraddizione con i propri principi, si dimostri nella discussione aggressivo, violento, insultante, intollerante di quasiasi opposizione o, peggio, confutazione, sbugiardamento. E se perfino un pacifista, dunque, non riesce a trattenere la propria rabbia, quando entra in una contesa, sia pure solo verbale, con altri, come possiamo pretendere che i popoli, i governi, i dittatori si mostrino più ragionevoli, più moderati?

Sia chiaro: anche io detesto la guerra, ma il mio detestarla non cambia le intenzioni di chi le guerre le muove. La vita vale più di qualsiasi guerra, di qualsiasi principio, afferma qualcuno. Ma quale vita? Anche quella che non si vuole vivere? E se qualcuno mi costringe a vivere la vita che non voglio vivere non devo ribellarmi, devo accettare l’imposizione, perché accettandola, mi garantisco la vita, o meglio: il fatto di continuare a respirare, la sopravvivenza, insomma? Lo storico francese Marc Bloch, fondatore, insieme all’altro grande storico francese Fernand Braudel, dell’Ecole Pratique des Hautes Etudes e della rivista “Annales” che ne è la voce, ritenne che proprio la sua funzione di storico gl’imponeva, ora che i tedeschi avevno occupato la Francia, l’obbligo civile e morale di prendere le armi contro l’invasore e aggressore tedesco, si arruolò tra i partigiani e fu ammazzato dai nazisti.

Machiavelli, nel prezioso capitlo XV del Principe, afferma un principio fondamentale: che la “realtà effettuale della cosa” non corrisponde necessariamente alle belle intenzioni di chi vorrebbe governare con mitezza e con generosità. “Perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni”. Dovrà dunque piegarsi alla necessità di regolarsi come richiede la situazione. I greci la chiamavano ἀνάγκη, ananke, necessità. Vi devono sottostare anche gli dei. Mi è stato obiettato, le volte che ho fatto presente questa riflessione di Machiavelli, che il Segretario Fiorentino viveva in un’epoca nella quale il comportamento degli Stati era più violento, più priimitivo del nostro. Che dal Cinquecento a oggi la politica, e la concezione della vita, ha fatto qualche progresso. Che l’idea della guerra appare oggi ai più una barbarie (come se agli antichi apparisse una delizia!). Che il pacifismo si è oggi strutturato in un vero e proprio movimento che ha proseliti in tutto il mondo. Ma io mi chiedo: in quale mondo vive chi fa simili obiezioni? La politica avrebbe fatto progressi di civiltà? I campi di steminio nazisti, le bome atomiche su Hiroshima e Nagasaki, i gulag staliniani sono un progresso di civiltà? E le guerre mediorientali, africane, asiatiche, le dittature dell’Anerica Meridionale, del Sud Est asiatico sono un progresso di civiltà? La storia non è mai stata così feroce, così violenta, così barbara e spietata come in quest’ultimo secolo, e in questi utimi decenni, dalla defunta Iugoslavia all’Africa centrale, alla Cambogia l’orrore della guerra ha devstato città, campagne, ucciso, anzi sterminato uomini, donne, bambini. Solo perché noi europei non conoscevamo più simili orrori, che avvenivno lontano da noi, ci sembrava che fossero spariti. I cadaveri, a chilometri di distanza non puzzano più, sembra. Questa guerra in Ucraina ora ci spaventa perché finalmente ci tocca da vicino, cambia le nostre abitudini, compromette il nostro benessere, e dunque ci riguarda. Putin, senza che lo volesse (o sì?), ci ha svegliati da un sonno, ha dissolto un sogno. Eravamo soltanto noi europei, nel mondo, e pochi altri, ad esserci risparmiati per sette decenni l’esperienza di una guerra. Prendiamone atto. Atto di un privilegio, e che ciò che accade in Europa non è ciò che accade anche nel resto del mondo. Le guerre, forse, si posso evitare. Ma solo prima che ssiano scatenate. La guerra, cioè, si evita prima della guerra, prima che esploda. Ma una volta deflagrata diventa difficile fermarla. Non impossibile: difficile, e richiede sacrifici, anche terribili, devastanti. Si può fermarla, senza ina sprirla, purché però si sia coerenti, si rigettino le mezze misure. Non si può, per esempio, condannare Putin, definirlo criminale da una parte e accettare il suo gas dall’altra, perché ci serve. Demandare ai soli ucraini il compito di fermarlo, è comodo, pratico, ma è ributtante, disonesto. È fare insomma una guerra per procura. Mandare armi agli ucraini perché arrestino l’aggressione e nel contempo dare a Putin i soldi per armarsi: un cul de sac, una contraddizione. Se davvero vogliamo fermarlo, Putin, è troppo comodo delegare gli ucraini a morire per noi. Qualche privazione dovremmo affrontarla anche noi. Affermare che l’economia ne risentirebbe, che troppe imprese fallirebbero, è restare nella logica del profitto – guarda caso, però: il nostro profitto – mantenerlo, anzi accrescerlo a tutti i costi, perché se no l’economia ne soffre, si entra in recessione. Ma è appunto questa la logica non già solo del profitto,bensì di tutte le guerre. I profitti delle imprese – e della finanza – ingrassano le guerre, le provocano e le finanziano. Leopardi scrive nello Zibaldone che tutte le guerre si fanno “per il pepe e per la cannella”. Togliamoci, dunque, la maschera di generosi pacifisti: in realtà non è la pace che vogliamo, ma vogliamo conitnuare a consumare in pace, alemo noi, pepe a cannella. Perché se vogliamo davvero la pace – con i fatti e non con le parole – dobbiamo disarmare le ragioni della guerra, non la guerra in genere, indiscriminatamente la guerra, come se fosse un concetto, un’astrazione, qualcosa ch’è sempre uguale, dobbiamo disinnescare, disincentivare questa guerra qui, questa che ci spaventa perché o ci compromette il nostro benessere o addirittura ci getta nell’apocalisse di una terza guerra mondiale. Gli ucraini muoiono per la propria – e la nostra – libertà. Ma noi non vogliamo morire per loro, anzi non vogliamo nemmeno comprometterci tropo fornendoli di armi, non si sa mai si risvegli e diventi rabbioso l’orso russo. Perché,allora, sarebbe la terza guerra mondiale. Ma che cosa, perciò, c’impedisce di essere coerenti fino in fondo e chiudere il rubinetto del gas russo?

Sia chiaro: non si tratta di tifare per una o l’altra divisa, come per una partita di calcio. Tuttavia la situazione è chiara: c’è un aggressore, Putin e un aggredito, l’Ucraina. La quale avrà anch’essa qualche nefandezza da nascondere – quale paese non ne ha? O crediamo ancora alla favola degli “italiani brava gente”? Anche in Libia? Anche in Eritrea? Anche in Etiopia? Anche in Slovenia? Ma in questo momento l’Ucraina è l’aggredita e la Russia, o meglio Putin, l’aggressore. Eventuali sbagli, colpe, nefandezze degli ucraini si vedranno dopo, quando la guerra sarà finita. In questo momento l’indispensabile è finire la guerra. Impedire che diventi qualcosa di ancora più terribile. Ma chiusa questa guerra avremo chiuso con tutte le guerre?

Come scrivevo più sopra: non lo so,non ho risposte, non conosco le scelte, le soluzioni che chiudano per sempre il ricorso alla guerra. Il problema non è volere o non volere una guerra. Il problema è che una guerra c’è. La si voglia o no. E ci sarà sempre, finche qualcuno la vorrà. Non possiamo illuderci che l’intero pianeta diventi un pianeta di generosi pacifisti. Ma se c’è anche un sistema per finirla, questa guerra, esso va messo in atto. Senza esistare. Solo che, guarda caso, qui cominciano altri problemi: il sistema certo che metterebbe fine alla guerra non lo si vuole adottare. O meglio: una parte d’Europa, noi tra questi, esita. Ha paura. Tergiversa. Ma allora con che voce, con che coscienza invochiamo la pace? La vogliamo gratis, senza sacrifici, regalata, questa pace? La vogliamo perché la desideriamo, perché la proclamiamo e perché proclamiamo che la guerra è una barbarie? Sgamoni! L’abbiamo scoperto adesso che la guerra è una barbarie? Alessandro Magno non lo sapeva? Cesare non lo sapeva? Napoleone non lo sapeva? O non lo sapeva Tucidide? Non lo sapeva Bloch? Non lo sapevano i Cartagnesi massacrati da Scipione? Non lo sapevano gli ebrei e gli altri internati di Auschwitz e Buchenwald? Euripide e Machiavelli, al riguardo, dicono qualcosa che mi sembra definitivo: Euripide, che una guerra, se non la si vuole, non va cominciata e si deve fare tutto per non farla cominciare; Machiavelli aggiunge che, però, quando è cominciata, va affrontata in tutta la sua brutale realtà e fatta finire tenendo conto appunto di questa sua brutale realtà. Tutto il resto, come le offerte che gli uomini mandano agli dei, finiscono con il fumo delle vittime sacrificate nel regno degli Uccelli immaginato da Aristofane, o nel regno di Hūrqalyā, il regno del misticismo islamico, dove si realizzano i sogni irrealizzati degli uomini, le aspirazioni più vere, più reali d’ogni real terrena, che smuovono l’animo umano.

Fiano Romano, 15-16 aprile 2022

- 16/04/2022

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