Riflessioni estemporanee sull’arte, la scrittura, il teatro, la musica
La zavorra psicologica
C’è una malattia nella critica letteraria italiana che diventa costume nell’accostamento dei più alla letteratura: l’idea che nel racconto, nella poesia, conti soprattutto la cosa che si dice, la trama, la psicologia dei personaggi o il sentimento del poeta. La forma, i modo di presentare la cosa, la lingua che si adopera, sono elementi secondari: diventano principali nell’esteta, colui che cura la forma senza avere niente da dire. Ma nell’opinione comune è sentito poi come vuoto estetismo qualunque attenzione alla scrittura. Perfino molti degli editor, anche di case editrici cospicue, che dovrebbero per ufficio salvaguardare il livello letterario della scrittura, correggono invece le pagine a loro avviso troppo complesse per il lettore medio, e spingono per una scrittura anonima, banale, ma immediatamente comprensibile. Con il risultato che i romanzi che vengono pubblicati, ma perfino le raccolte di poesia, si assomigliano tutti. Leggi poche pagine e capisci come va la storia, com’è raccontata la vicenda, espressa l’immagine poetica. Quanti danni finiscono per fare alla lettura dei libri queste impostazioni della lettura letteraria. Perfino la lettura dei classici ne esce ridotta, immiserita. L’interpretazione di Shakespeare, ma del teatro in genere, e anche della letteratura, se ubbidisce agli schemi della lettura psicologica e ideologica di un testo, finisce per fraintenderlo, fraintenderne, soprattutto, la complessità e la molteplicità di letture possibili da cui è possibile accostarlo. Tra l’altro si schematizzano campi di ricerca, come la psicologia e l’elaborazione delle idee, che sono strumenti assai complessi d’indagine. Ricordo che nei miei anni liceali lessi un commento a una tragedia di Euripide che già allora suscitò in me perplessità e rifiuto. Si tratta di Medea, l’edizione in greco, commentata da Giuseppe Ammendola. Sul lungo – e straordinario – confronto tra Medea e Giasone il commentatore osserva che il grande drammaturgo – bontà sua! si tratta di Euripide! – qui si lascia trascinare dal piacere tutto ateniese dei dibattiti processuali, perché una donna travolta dalla passione non può ragionare così lucidamente e difendere le proprie ragioni con così sottile analisi delle contraddizioni in cui incorre l’oppositore. Ammendola, in questi caso, fa due errori: uno, credere che Euripide imposti il contrasto come contrasto psicologico e non come confronto di due impostazioni di vita; due, che, anche ammesso che il contrasto sia psicologico, ma chi gli dice che una donna innamorata non possa analizzare lucidamente le ragioni dell’amante? Ammendola qui si dimostra non solo uno scarso conoscitore dei meccanismi teatrali, della tragedia greca, ma anche un superficiale e dilettantesco orecchiante di psicologia. Ciò che comunque infastidisce di queste lettura è la supponenza di beccare in fallo un grande drammaturgo, un grande scrittore. Come quando alcuni commentatori osservano che i cori della cerimonia nuziale nella Mirra di Alfieri sono convenzionali e mediocri. Ma perché avrebbero dovuto essere poetici e originali? La convenzionalità del rito fa tragico contrasto con la situazione emotiva della ragazza, che tutto è tranne che convenzionale. La mediocrità dei cori ha la funzione drammaturgica di mettere in risalto la singolarità della passione di Mirra. È un po’ lo stesso errore di prospettiva interpretativa che si compie quando si rimprovera a Verdi di aver scritto una marcetta da banda di paese per l’ingresso di Duncano nel castello di Macbetto. Ma quale marcia avrebbe potuto essere più efficace a rappresentare l’avvio del Re al suo macello? Beethoven si comporta nello stesso modo quando fa precedere nel Fidelio l’ingresso di Pizarro, il malvagio e corrotto governatore del carcere, da una marcetta anch’essa insignificante. Il male, l’orrore, non si presentano quasi mai nella vita con una faccia terribile, bensì con la faccia della normalità, e proprio questo è terribile: che l’assassino, il criminale, il tiranno possa essere uno “normale” come noi. Messaggio tragicissimo. Lo sfrutta già Eschilo quando Clitennestra invita Cassandra a entrare nel palazzo, e le parla come se la invitasse a un festino. Mi chiedo: ma certi commentatori, quando affrontano la lettura di opere così complesse, hanno idea della molteplicità di letture che un’opera letteraria o teatrale permette, anzi esige? Ma, soprattutto, hanno idea della complessità del reale, di cui il teatro vuole farsi insieme specchio e interpretazione?
Una Bohème particolare
La Bohème di Giacomo Puccini, libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica dal romanzo Scene della vita di Bohème di Henri Murger, andò in scena al Teatro Regio di Torino il 1 febbraio 1896. Tre anni prima, sempre al Teatro Regio di Torino, sempre un 1 febbraio, andò in scena Manon Lescaut, il primo grande successo di Puccini, un’opera che costò molta fatica e molti ripensamenti, soprattutto per la stesura del libretto a cui misero mano in molti – Luigi Illica, Marco Praga, Domenico Oliva , e vi partecipò lo stesso Puccini, ma che alla fine fu pubblicato senza il nome di un autore. All’epoca la drammaturgia di Manon Lescaut fu giudicata incoerente, poco teatrale, sconclusionata, a dimostrazione di quanto spesso i contemporanei non riescano a individuare le ragioni del nuovo, e invece a noi oggi appare modernissima, quasi cinematografica, quattro scene della tragica vita di Manon apparentemente staccate l’una dall’altra, ma che nella successione disegnano i momenti di svolta del degrado sociale dell’infelice giovane, da ragazza di buona famiglia ad amante di uno studente squattrinato, poi mantenuta di un ricco debosciato, prostituta e truffatrice deportata nelle colonie francesi d’America, morta di stenti nel deserto del Nuovo Mondo.
Certo, rispetto alla coerente e ininterrotta vicenda della Manon di Massenet, andata in scena all’Opéra-comique di Parigi il 19 gennaio i884, l’opera di Puccini sembra incoerente, gli atti scollegati l’uno dall’altro. Ma la vicenda acquista un colore sinistro, tragico, che non ha l’opera francese, la quale, tuttavia, disegna un ritratto assai più delicato e pieno di sfumature della ragazza, mettendo in rilievo, più che le crisi psicologiche del personaggio, il suo destino di vittima sociale degli appetiti maschili, che in quanto donna non ha altre risorse se non il sesso per prevalere sulla loro prepotenza. Che è poi la tesi anche di uno straordinario romanzo illuministico francese: Le relazioni pericolose di Chordelos de Laclos. Ma in quei tre anni – dal 1893 al 1896 – il mondo del teatro musicale, anche in Italia, era cambiato.
Appena otto giorni dopo il successo di Manon Lescaut al Teatro Regio di Torino, un’altra opera andò in scena alla Scala di Milano: il Falstaff dell’ormai ottantenne Giuseppe Verdi. Era un’opera assolutamente nuova, che spazzava via le differenze tra il melodramma di tipo italiano e francese costruito su numeri musicali chiusi e il dramma wagneriano di un flusso musicale ininterrotto. Si disse, e si scrisse, già dall’Otello, di sei anni prima, che Verdi aveva ceduto al modello wagneriano. Ma le cose stanno in altro modo. Verdi non rinuncia affatto alla forma musicale chiusa. Cerca, come ha fatto fin dall’inizio della sua carriera di drammaturgo, di costruire una continuità drammaturgica musicale cucendo insieme le forme chiuse senza farne sentire la cesura. Era del resto la lezione dell’ultimo Rossini. Donizetti segue altre vie. Bellini vuole, invece, anch’egli costruire una continuità drammaturgica, ma per vie tutte sue, attenuando le differenze tra declamazione e aria, da una parte estendendo al declamato la cantabilità dell’aria, e dall’altra introducendo nell’aria la forza drammatica della declamazione. Esempio sublime, il duetto finale tra Norma e Pollione, nella Norma. Verdi lo tiene presente per tutta la vita. E mira a reinventare da una parte la grande forma rossiniana, così bene individuata da Dahlhaus nel suo saggio sulla musica dell’Ottocento, una forma che equilibra le necessità stilistiche di una forma musicale chiusa – che però non sia la singola aria – con la sua funzione drammaturgica, e dall’altra a proseguire la via di una declamazione melodica piegata alla situazione drammatica come gli pareva suggerita da Bellini. Il finale del Ballo in maschera già individua e realizza perfettamente questa via. Nel Falstaff il processo giunge al suo compimento. C’erano nel melodramma due forme che si prestavano a questo sviluppo. L’Introduzione, e il Finale. Verdi le coniuga, le mescola, e costruisce l’intera opera come una successione di introduzione e finale ininterrotta. Crea così quello che poi verrà chiamato stile di conversazione. L’opera non si spezza in singoli momenti formali ma si presenta come una successione ininterrotta di conversazione tra i personaggi.
Puccini coglie la novità, e il compimento di una tradizione alla quale nemmeno lui voleva rinunciare. Nasce così La Bohème. Un’opera di perfetta conversazione ininterrotta tra i personaggi, con i suoi momenti lirici che però non spezzano la continuità, sarebbe infatti sbagliato considerarli, come spesso si fa, arie o romanze: sono il momento lirico del dialogo, la sviluppo musicale necessario di ciò che precede e la premessa ugualmente necessaria di ciò che segue. Il dialogo – e non duetto! – tra Rodolfo e Mimì che chiude il primo atto ne è un esempio mirabile. La situazione – i due restano al buio, cercano la chiave, si parlano – non conosce un solo attimo di sosta, e ciò che sembra un arrestarsi dell’azione – non cercano più la chiave – è solo uno svilupparsi del sentimento dei due che si scoprono alla fine innamorati, l’azione dunque si trasferisce dai gesti esterni all’interiorità dei personaggi. Quella sorta di concertato finale che chiude il dialogo, con le voci degli amici fuori scena, è un riportare l’azione interiore al movimento indispensabile dei due innamorati che escono per raggiungere gli amici. La continuità drammaturgica è raggiunta, ma senza soffocare lo slancio lirico dei sentimenti nei momenti in cui il sentimento deve effondersi.
Tutto ciò, questa continuità musicale dell’azione, è manna per un regista. Tanto più per un regista che voglia trarne un film. Mario Martone conclude, per il Teatro dell’Opera di Roma, con questa bellissima Bohème, trasmessa venerdì scorso da RAI 3, il percorso iniziato con Il Barbiere di Siviglia e proseguito con la Traviata, creando una trilogia teatrale e cinematografica di straordinario interesse. Perché non fa teatro, solo teatro, ma nemmeno cinema, solo cinema. E tanto meno mette in scena un melodramma, anzi sarebbe, nel caso della Bohème, di dire dramma musicale, opera, e non melodramma. Fa qualcosa di assai più complesso: fa tutte queste tre cose insieme: mette in scena un dramma musicale, fa teatro e facendo teatro fa un film, un film che è la rappresentazione di come si mette in scena un dramma musicale senza fare vero e proprio teatro, ma in realtà poi costruendo un’azione teatrale al quadrato, che è anche un film che mostra come si fa un film che non è cinema, ma è teatro che si fa cinema. Martone, come aveva già fatto con Il barbiere di Siviglia e la Traviata, non si propone di fare un film dell’opera, trasferendo pari pari l’azione che si sarebbe vista a teatro in un’azione cinematografica, mantenendo cioè l’illusione di assistere a una vicenda, come in un vero film, con la differenza che i personaggi, invece di parlare, cantano. No, l’origine teatrale-musicale dell’azione non è mai trascurata, è anzi esibita. Il film, così, appare come una riflessione su come si fa o si può fare oggi un film d’opera. E per di più proprio il soggetto della Bohème, un gruppo di giovani che credono di poter cambiare il mondo, si presta a una nostalgica rievocazione della nouvelle vague francese, l’insegna del Café Flore, nel quartiere Latino, frequentato, tra gli altri intellettuali del periodo, anche da Sartre, a un certo punto appare, fuggevolmente, dove ci aspetterebbe il Café Momus. Questa rievocazione di una certa Francia conferisce al film un tono di perpetua e nostalgica tristezza, di malinconia che l’allegria e lo slancio vitale giovanile non riescono a reprimere. Ma del resto non è tipica proprio dei giovani più fantasiosi e visionari una profonda malinconia, un desiderio della morte, e la sua paura, un senso smodato di solitudine e d’inadeguatezza? Chi sa che sia questo il senso profondo della Bohème di Puccini. Le riprese sono girate nei Laboratori di Scenografia del Teatro dell’Opera di Roma, in via dei Cerchi: un edificio di archeologia industriale, tra officine per scenografi-pittori, depositi immensi di costumi e attrezzeria scenica e una falegnameria. Negli esterni si vedono le rovine del Circo Massimo e del Palatino. L’orchestra s’inserisce più volte nella rappresentazione, inquadrata nello spazio immenso del laboratorio. Il direttore, Michele Mariotti, è più volte inquadrato, nei momenti di più intima concertazione strumentale, in primi piani che mettono in evidenza la realtà di un’esecuzione musicale e non di una finzione realistica che racconti una vicenda.
Niente è realistico, gli ambienti non sono quelli del libretto, ma è il laboratorio, i vari spazi del laboratorio, le sue terrazze. E tuttavia, il realismo cacciato via dalla porta, rientra dalla finestra dei primi pieni dei volti dei personaggi o meglio degli interpreti. Rare volte si sono visti un Rodolfo così verosimile, una Musetta così accattivante, una Mimì così credibile, Federica Lombardi, nonostante il fisico denunciasse uno stato di ottima salute, e non una malata di tisi. Avrebbe potuto essere una contraddizione in una rappresentazione che avesse voluto presentarsi come realistica, è invece un elemento in più di intensità emotiva proprio perché non è abolita la differenza tra interprete e personaggio, ma è anzi esibita. È l’interpretazione che restituisce il personaggio, non la sua verosimiglianza visiva. Sono, anzi, proprio i primi piani dei volti degli interpreti a condurci nell’evoluzione dei sentimenti che muovono le azioni dei personaggi.
Indimenticabile il volto di Mimì che nel terzo atto ascolta il colloquio tra Rodolfo e Marcello, dal quale apprende sì che Rodolfo la ama, ma anche di essere condannata dalla malattia. Gli interpreti vanno lodati tutti. Qualcuno, come il Rodolfo del tenore cileno Rodolfo Tetelman ha l’efficacia di un fisico adattissimo al ruolo, di un bel giovane dall’aspetto ingenuo, ma in realtà introverso, complicato. Ma gli altri non sono da meno, il Marcello di Davide Luciano e la Musetta di Valentina Nafornita, moldava, Schaunard è Roberto Lorenzi, Colline è Giorgi Manoshvili. Impagabile Benoit, Armando Ariostini. E musicalmente? All’effetto visivo corrisponde quello musicale.
Straordinaria l’omogeneità del cast. Nessuno fuori tono o sopra le righe. Segno di un lungo lavoro di preparazione. E Michele Mariotti tiene insieme le complesse fila dell’interpretazione su un piano di perfetto adeguamento di ciascuno all’insieme. Un film da vedere e da rivedere, che è insieme una splendida interpretazione dell’opera e una lezione di come oggi una rappresentazione che non sia anche riflessione sulla rappresentazione appaia inadeguata, poco credibile, per quanti sforzi si facciano, magari anche polemicamente, programmaticamente, quasi come un’utopia di una fedeltà inesistente o impossibile, di rispettare, come da alcune parti vanamente si continua a dire e a proclamare, le prescrizioni del libretto e della partitura. Che non è vero, perché l’arte del teatro – e del cinema – muta assai più rapidamente di quanto l’ingenuo spettatore o teatrante, fiduciosi nella verisimiglianza delle convenzioni teatrali, possano immaginare. Altrimenti dovremmo rappresentare Shakespeare affidando ad attori uomini anche le parti femminili, rialzare l’rchestra al livello del palcoscenico per l’opera prima della riforma wagneriana, in Italia almeno fino al primo novecento, e riportarla sulla scene per le rappresentazioni rinascimentali e del primo Seicento.
Rileggersi, per convincersene, le pagine, può darsi definitive, che Carl Dahlhaus, nel saggio I drammi musicali di Richard Wagner (Marsilio, purtroppo esaurito, si può però leggere l’edizione originale tedesca oppure la sua traduzione inglese), dedica alle messe in scena dei drammi wagneriani.
Un poeta legge un altro poeta
Qualche tempo fa, lessi sul sito dell’IBS il commento risentito di un lettore che si autodefiniva “frustrato” dopo avere letto la Conversazione su Dante del poeta russo Iosip Mandel’štam, perché la giudica incomprensibile. La sicurezza e la fermezza della condanna mi spinsero a rispondere punto su punto alle sue osservazioni. Siamo nel 2021, ed è dunque appena cominciato l’anno dantesco. Sette secoli dalla sua morte. Ripubblico, qui, per questo, quelle mie osservazioni: mi paiono quanto mai attuali. E’ di alcuni giorni fa la notizia che un gruppo di fanatici moralizzatori della società hanno chiesto alle autorità scolastiche degli Stati Uniti di togliere da ogni ordine d’istruzione, dalle primarie all’Università, la lettura e lo studio dei poemi omerici, perché opere di uno scrittore razzista. Ora, a parte l’aberrazione di giudicare con le idee attuali un’opera del passato, nata da un contesto politico e sociale diverso, colpisce nella richiesta l’incapacità di leggere la pluralità di significati di un’opera letteraria. Tutto letto e spiegato alla lettera. Come se la lettera dicesse oggi ciò che diceva allora. E come se bastasse la comprensione della lettera per comprendere un’opera letteraria. Ma non solo. Perfino nella lingua quotidiana, nella quotidiana comunicazione tra le persone, la sola lettera non basta a rendere conto di ciò che ci si dice l’un l’altro. “Ma che? Ti gira il cervello?” Chi lo chiede mica vede il cervello dell’interlocutore girare davanti a lui. Oppure: “Mi sa che brucio”. Non credo che chi parla così voglia che qualcuno gli getti addosso un secchio d’acqua. Sta semplicemente insinuando di avere forse la febbre. Gli esempi possono essere molti, moltissimi. Ma se questo accade nel linguaggio quotidiano, quanto più complesso sarà il rapporto tra la lettera delle parole e il loro significato metaforico in un’opera letteraria? Ecco: l’abbiamo detto. Quando si parla, si parla spesso per figure, per traslati, cioè per metafora, parola greca che significa appunto traslato, trasporto. Tanto è vero che si chiamano così oggi i trasporti in Grecia, treni, tram, autobus. Figuriamoci allora quanto ancora più figurato sia il linguaggio degli scrittori, dei poeti. A cominciare, appunto, dalla Divina Commedia: fin dal primo verso: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”. La vita mica è un cammino. Eppure la frase ormai è addirittura proverbiale. Ma non basta. Rendersi conto che il linguaggio degli scrittori dice altro rispetto alla lettera di ciò che si legge, è solo il primo passo per la comprensione di un’opera letteraria. Poi dobbiamo calare l’opera nell’epoca in cui fu scritta, e conoscere il significato delle parole in quell’epoca. Spesso le parole, con il tempo, cambiano di significato. Restiamo all’esempio di Dante. Un sonetto famosissimo, collocato poi da Dante nella Vita Nova, verrebbe oggi totalmente frainteso se lo leggessimo attribuendo alle parole il significato che hanno oggi. E’ il sonetto che comincia “Tanto gentile e tanto onesta pare”. Ora, quasi nessuna delle parole di questo verso significa oggi ciò che significava nel Duecento. Gentile significa nobile, onesta significa degna di onore, e pare significa appare, compare, non “sembra”. Dunque: Tanto nobile e così degna di onore appare ecc., con tutto quel che segue. Tant’è vero che proprio giocando su quest’ambiguità, su questo mutamento di significati, Gabriele D’Annunzio, nel 1921, giusto un secolo fa, in cui si celebrava anche allora il centenario della morte di Dante, il sesto, allora, come oggi il settimo, ne fece una divertente parodia:
la donna altrui quand’ella mi saluta,
sì ch’ogni lingua deven tremando muta
e gli occhi non la smetton di guardare;
ella si va, sentendosi laudare,
benignamente di niente vestuta,
e par che sia una cosa venuta
come t’ha fatto mammeta a mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la trova,
che dà per gli occhi una dolcezza al cuore,
che intender non la può chi non la prova;
e par che dalle sue labbia si muova
un spirito soave pien d’amore
che va dicendo all’anima: riprova.
Ecco il sonetto originale:
Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia, quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mòstrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
Basterebbe questo solo esempio a far comprendere quanto complesso sia sempre l’accostamento a un’opera letteraria, tanto più se poetica. La stessa parodia dannunziana non si comprende né si apprezza appieno se non in riferimento ai molteplici sensi del testo originale.
Si potrebbe qui aprire un altro discorso: fino a che punto, cioè, sia legittima una lettura che travalichi la lettura filologica del testo, vale a dire ciò che si suppone il poeta abbia voluto veramente dire. Ovvio che l’interpretazione corretta del testo è il punto di partenza necessario e ineliminabile. Ma perché dovremmo limitarci alle ristrette condizioni in cui il testo è nato? Lo stesso poeta non può figurarsi quanti altri significati un lettore possa trovare nel suo testo, significati asi quali magari non ha nemmeno pensato. L’intenzione dell’individuo che scrive è solo una delle fonti del testo, apparentemente estranei. La lingua trattiene in sé significati che non necessariamente lo scrittore, il poeta, vuole o è consapevole di esprimere, e tuttavia li esprime. Come osserva acutamente Émile Benveniste, “à la différence du langage ordinaire, le langage poétique fait voir les choses en se faisant voir lui-même.” (Baudelaire, Limoge, 2011, pag. 46), e cioè: a differenza del linguaggio ordinario, il linguaggio poetico fa vedere le cose facendo vedere sé stesso. E’ il linguaggio stesso l’oggetto della poesia. Nel senso che qualsiasi significato non è dato in riferimento a qualche dato esterno al testo, ma è il dato esterno stesso che si può ricavare solo da ciò che dice il testo. L’evocazione, l’associazione, anche inconscia, anche diversa in ogni lettore, e diversa perfino da parte dello stesso poeta in momenti diversi della lettura del proprio testo, anzi, addirittura durante la stessa scrittura del testo, il poeta può, ritornando sul testo, ri-scoprire sensi che la prima stesura non gli aveva rivelato. Allora, andiamoci piano con la lettura ingenua della poesia, con la poesia che deve capirsi subito, oppure non è poesia. Anche la più semplice delle poesie, la più immediata, pretende un’attenzione almeno altrettanto intensa a quella del poeta nel momento in cui la scriveva. Pianto antico di Giosue Carducci non è un lamento per la perdita del figlio. E’ anche un lamento per la perdita del figlio. Ma già il titolo dice altro, aggiunge qualcosa. E perché il ricordo del figlio è associato al fiore rosso del melograno? Perché il pianto è detto antico?
L’albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da’ bei vermigli fior,
nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora
e giugno lo ristora
di luce e di calor.
Tu fior della mia pianta
percossa e inaridita,
tu dell’inutil vita
estremo unico fior,
sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor.
E perché quest’andamento da canzonetta? Una ninna nanna? Una melodia infantile? I “bei vermigli fior” del melograno ritornano più volte. Sono “il fior della mia pianta”, il fiore unico, estremo dell’inutil vita, e fa rima con calor e con amor. Ce n’è già su cui avventurarsi a intessere figure, ricordi, riflessioni. E questa è una poesia semplice, breve. Figuriamoci un poema come la Commedia. Perché dovrebbe risultarci immediatamente comprensibile? E perché immediatamente comprensibili le riflessioni di un altro poeta, ch’è per di più di un altro paese, di un’altra lingua, che “conversa” come con un amico con il grande assente? L’assenza, la lontananza, e dunque la difficoltà del contatto, non fanno anch’esse parte di questa conversazione? E davvero pensiamo che spiegare una poesia ne esaurisca il significato? Anzi – e tremo a scriverlo – davvero pensiamo che anche nella nostra vita quotidiana tutto sia chiaro, spiegabile, e che dunque un poema che parla della vita debba essere anch’esso chiaro, spiegabile, e chiara e spiegabile qualunque osservazione, qualunque conversazione sul poema? Davvero racchiudiamo la nostra vita e l’opera della nostra vita in così piccolo cerchio? Mi vengono in mente le parole dell’arcangelo apparso in sogno a Goffredo di Buglione, nella Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso:
Che cosa rispondere a un lettore insoddisfatto, anzi frustrato dalla lettura di Conversazione su Dante, di Osip Mandel’štam? Ecco la sua “recensione” sul sito IBS:
“Libro difficile. Insolito. Molto personale. Che cosa rimane dopo la lettura? Molta insoddisfazione. Uno stato di quasi frustrazione. In generale. Forse qualche idea su cui riflettere giustifica la fatica e il tempo consumato: 1. Leggere Dante è prima di tutto un lavoro interminabile, che a misura dei nostri successi ci allontana dalla meta (43) 2. La Divina commedia non tanto sottrae tempo al lettore, quanto piuttosto glie ne fa dono [?] (54) 3. A volte Dante sa descrivere un evento in modo tale che di esso non rimane assolutamente nulla. Per far ciò egli usa un procedimento che vorrei chiamare metafora eraclitea [?] (75) e più avanti, A una domanda diretta, senza preamboli, su cosa sia la metafora dantesca, risponderei che non lo so, perché della metafora è possibile dare solo una definizione metaforica [?] (116) 4. È impensabile leggere i canti di Dante senza volgerli al presente. (79-80) Sulla traduzione: non sempre felice, anzi farraginosa, incomprensibile. (89)”
Va dato merito al lettore frustrato di motivare la sua insoddisfazione. Ma sono proprio le motivazioni a lasciare perplessi. L’attacco è identico alla bella recensione di Claudio Napoli, Università di Pisa, Settembre I: La Divina Commedia nella Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam. “La Conversazione su Dante è un’opera di difficile lettura. Per meglio dire, è un’opera di difficile classificazione”. Ecco, il lettore doveva partire da una ricerca sul web e avrebbe trovato questa recensione, che gli avrebbe spiegato il suo disorientamento. La critica dantesca non è una passeggiata, né la “spiega” di un manuale scolastico. Anche una singola pagina di Auerbach è difficile. Per esempio il bellissimo saggio sulla “figura”, in cui si discute sull’allegoria, e si precisa che il termine allegoria è troppo generico, che già Dante lo suddivide e precisa meglio nella lettera a Can Grande della Scala, e Auerbach aggiunge dunque che sarebbe preferibile usare la categoria di figura, usata nell’esegesi biblica medievale. L’agnello è figura di Cristo, ma non cessa per questo di essere anche figura di sé stesso. Nella Commedia tutto è figura di altro, ma è anche, alla lettera, ciò che si racconta. Le frasi che il lettore cita dalla conversazione mandelstamiana e che addita come incomprensibili rientrano in questo duplice binario della significazione concettuale e poetica. Il lettore doveva sapere in anticipo che Mandel’štam è poeta, è anzi un gradissimo poeta, ma lo è in maniera molto particolare, partecipa al movimento degli acmeisti russi, ne sviluppa, però, una propria individuale reinvenzione. Ciò che scrive, anche quando non scrive poesia, rinvia sempre a un significato altro da quello che è detto. Sembra quasi conoscere la poetica indiana del dhvanya, secondo la quale nella poesia il significato sta non in ciò ch’è detto, ma in ciò che non è detto, un sottotesto o, meglio, un pre-testo, che il lettore o l’ascoltatore devono scrutare al di sotto del senso esplicito delle parole. Del resto la poesia russa, direttamente o indirettamente, ha legami consapevoli ma anche inconsapevoli con la poesia orientale. Colpisce, nel lettore, l’incomprensione di questa frase del poeta russo: “Leggere Dante è prima di tutto un lavoro interminabile, che a misura dei nostri successi ci allontana dalla meta”. Mandel’štam dimostra qui di avere, invece, profondamente inteso il senso e lo spirito della Commedia, un poema i cui molteplici sensi non si esauriscono con una spiegazione, ma che anzi ogni spiegazione accresce di nuovi sensi il passo che si legge, e così all’infinito, in un rapporto continuo, e personalissimo, bidirezionale, tra poeta e lettore. La prima spiegazione o il primo chiarimento di una “figura”, non ne esaurisce, infatti, il senso, ma apre la via a una serie interminabile di altri sensi. La lettura, qualunque lettura, della Commedia, è solo uno dei possibili modi di leggerla: aristotelicamente, tutte le potenziali altre letture in essa contenute, dovranno attuarsi in successive, molteplici e mai conclusive letture. In realtà qui il poeta russo sta parlando, non tanto di Dante, o non solo di Dante, ma della sua ossessione di una vita: la poesia. Che al lettore sfugga questo carattere della lettura di un poeta, lo dimostra un’altra frase da lui citata come incomprensibile: “A una domanda diretta, senza preamboli, su cosa sia la metafora dantesca, risponderei che non lo so, perché della metafora è possibile dare solo una definizione metaforica”.
Tra parentesi quadre il lettore colloca un punto interrogativo. Ma che cosa c’è d’incomprensibile in questa corretta definizione della metafora? In greco moderno la parola metafora indica i mezzi di trasporto. La lingua parlata, a volte, capisce il linguaggio meglio di qualunque critica. La metafora è in effetti un trasporto, i latini dicono traslato, e cioè un senso che rinvia a un altro senso, ma non a un altro senso preciso, bensì a una schiera, a un ventaglio di sensi, dei quali nessuno è quello ultimo, ma tutti rinviano a un senso altro e per spiegarlo, qui, io sto usando una metafora, proprio come afferma Mandel’štam, che “della metafora è possibile dare solo una definizione metaforica”. Che la spiegazione di una metafora stia in tutte le metafore successive, innumerabili, contenute nella metafora iniziale, è l’assunto principale della “conversazione” (e non saggio) del poeta russo. Quando dico “brucio d’amore” non sto certo dicendo che sto prendendo fuoco, e già questa è un’altra metafora, né che sono pazzamente innamorato, e “pazzamente” è un’altra metafora, o che mi consumo dal desiderio, altra metafora ancora, e così via. Che poi l’espressione sia diventata luogo comune e perfino banale dimostra solo la forza che possiede una metafora, al punto di rendersi comprensibile, senza essere specificata, perfino nel linguaggio quotidiano. Petrarca chiama “luci” gli occhi di Laura. Noi stessi, nel linguaggio quotidiano, diciamo di qualcuno o di qualcuna, che i suoi occhi sono “luminosi”. Ma vogliamo con questo dire solo che diffondono luce, sono pregni di luci (altra metafora!)? La luce è immagine dai molteplici e profondi significati. Perfino di salvezza, per un credente: la luce della salvezza. E tali appaiono a Dante gli occhi di Beatrice. Per Petrarca, anche lui credente, ma il cui amore non ha nulla di salvifico in senso religioso, la luce rinvia a un altro tipo di salvezza, o addirittura a tutti i tipi di salvezza. La conoscenza di sé stesso, tanto per cominciare. Ovvio che in questa poesia entrano di prepotenza anche espressioni e figure del linguaggio religioso. Proprio dall’esempio del Petrarca, che a sua volta si confronta sia con lo Stil Novo sia con gli amatissimi poeti provenzali, nasce anzi la trasformazione dell’innamoramento e poi dell’amore, come processo di un culto iniziatico. E’ stato facile denigrare il petrarchismo per il proliferare di poeti mediocri (ma ce ne sono anche di altissimi!) che hanno fatto uso e abuso delle metafore petrarchesche. Ma basterebbero i sonetti di Shakespeare o le poesie di Donne fino alle corrosive metafore di Baudelaire o di Rimbaud o agli enigmi di Mallarmé a riconoscere nel modello petrarchesco l’abissale metafora di quasi tutta la poesia europea. Non vi sfuggono nemmeno i contemporanei, Eliot meno di altri. O il nostro Montale. “Meriggiare pallido e assorto” riecheggia, perfino nel ritmo, un famoso, e bellissimo, sonetto del Petrarca: “Solo e pensoso, i più deserti campi”.
Scriveva il lettore, poco prima, qualche rigo sopra la frase citata riguardo alla metafora, citando la Conversazione: “A volte Dante sa descrivere un evento in modo tale che di esso non rimane assolutamente nulla. Per far ciò egli usa un procedimento che vorrei chiamare metafora eraclitea”. Di nuovo un punto interrogativo tra parentesi quadre. Che cosa c’è d’incomprensibile? Eraclìto è il filosofo del perenne fluire delle vicende e delle cose, in apparente contrasto con la permanenza dell’Essere parmenidea. Ma sono invece le due facce di uno stesso problema: la realtà che ci appare mutevole e sempre in movimento ha forse radici in una sostanza, o evento, immutabile. I filosofi cosiddetti presocratici cercavano il principio unico che tiene insieme la molteplicità del mondo e forse dei mondi (Newton e Einstein non cercano niente di diverso). Ma lo cercavano non già in un principio astratto, bensì nella concretezza della materia. Per esempio, l’acqua, per Talete. O i quattro elementi originari, acqua, terra, aria, fuoco, per Empedocle. O gli atomi, particelle indivisibili, per Democrito. E per loro è materia anche il linguaggio. Se ne ricorderà Lucrezio. Ma anche Aristotele, che fa tesoro delle loro ricerche naturalistiche. Mandel’štam si ferma al significato di flusso, di corrente. Ma proprio perché in questo fluire vede l’inesauribile moltiplicarsi dei sensi. E di nuovo, parlando di Dante, sta parlando della poesia. E, senza aver letto Auerbach (il saggio Figura fu pubblicato più tardi) dice quasi le stesse cose. Ma non dimentichiamo che Roman Jakobson era russo e che il Formalismo del Circolo di Praga, da lui fondato, ha dunque radici russe. Da questa costola nascerà lo Strutturalismo, che, però, in parte, ne sterilizza la carica eversiva, la fecondità critica allusiva. Possiamo fermarci qui. Le altre frasi citate come stralunate e incomprensibili, si chiariscono facilmente esercitando, appunto, le nostre capacità di leggere le metafore, e lo scoglio che il lettore incontra a comprenderle è l’ostacolo che sempre incontra chi si nega a penetrare il molteplice della poesia. Il lettore non si scoraggi, è in buona compagnia. Galilei, fervente ammiratore dell’Ariosto, non amava il Tasso, gli riusciva, appunto, incomprensibile. L’equilibrato, armonioso mondo ariostesco gli pareva abbandonato per un modo confuso, inafferrabile, insignificante. In realtà proprio il Tasso avrebbe dovuto fargli capire quanto d’incommensurabile, incomprensibile, sfuggente, molteplice si celi anche dietro la chiarezza dell’Ariosto. Quanto d’ineffabile dietro le immagini trasparenti di Raffaello. Galilei critica anche il linguaggio del Tasso. Sofronia è condotta nuda al patibolo e si vergogna. Tasso scrive: “Raccorse gli occhi”. Immagine bellissima, questo ritrarsi degli occhi dalla nudità visibile per nascondersi nell’intimità del pudore. Ma Galilei non la capisce ed esplode: “E che? Le eran caduti?” Prende la lettera, senza capirne il senso metaforico. Ma se non afferri la metafora, perché leggi la poesia? Anzi, perché ti occupi di letteratura? Perfino gli scrittori che programmaticamente dicono di attenersi al reale non possono sfuggire all’ambiguità letteraria. Chi è Madame Bovary? C’est moi, dichiara Flaubert. Ah, sì? Allora non è solo la povera donnetta di provincia che ambisce a un’esistenza diversa, più nobile, più acclamata? Eh, caro Galilei, caro lettore, la poesia è sempre altro da quello che apparentemente dice. E lo è anche la critica della poesia, quando si confronta con testi dell’ampiezza e della complessità della Commedia. Ma fosse stato un sonetto di Shakespeare le cose non sarebbero state diverse. Per non parlare del suo teatro. Chi è Amleto, chi Lear, chi Macbeth? E che vuol dire Amleto quando confessa all’amico Orazio che il suo cuore è malato (ill)? O Macbeth quando dice di sentirsi scorpioni nel cervello? O Lear, quando proclama che la natura è ingrata? Per correggersi subito: la tempesta che lo assale e lo fustiga, non è sua figlia, non può essere accusata d’ingratitudine. Chi non è disponibile all’avventura di penetrare dentro mondi molteplici, interminabili, innumerabili, si tenga lontano dalla poesia e dalla letteratura. Non è il mondo della logica. Non è nemmeno il mondo dell’irrazionale, come qualcuno suggerisce, per salvare capra e cavoli. Si ha un’idea molto ristretta della Razionalità se la si delimita nella Logica. La Logica è solo una parte, anzi uno strumento, della Ragione. Aristotele, infatti, la chiama appunto strumento, organon. Ma la Ragione ha sguardo più vasto (metafora!). E sarebbe impossibile senza il linguaggio. La razionalità della poesia sta proprio qui, nel fatto che è linguaggio. Non che usa il linguaggio, anche la scienza lo usa, ma che è essa stessa linguaggio, solo linguaggio. Lucrezio lo capisce benissimo e lo canta divinamente. Metafora anche l’attacco del poema che invoca la Natura sotto la figura dell’alma Venus, Venere nutrice, generatrice. Chi lo direbbe? Il poeta della scienza che fonda la scienza della poesia. Non è un gioco di parole. E’ proprio così, nel momento che con il canto nasce il linguaggio, poesia e scienza sono indissolubilmente congiunte. Per questo scrive un poema e non un trattato. Anche qui, Aristotele aveva visto giusto: senza linguaggio non c’è conoscenza. E anche la poesia è conoscenza, è anzi conoscenza dell’universale. Al linguaggio Aristotele dedica trattati fondamentali, dalle Categorie, al De Interpretazione, alla Retorica, alla Poetica. E nell’Etica a Nicomaco specifica che i metodi della conoscenza, della ricerca della conoscenza, non sono gli stessi in tutte le scienze, ma devono adeguarsi all’oggetto della ricerca, la ricerca delle leggi del comportamento umano non è condotta con lo stesso metodo con cui la matematica calcola le proporzioni del reale, anche se sempre si tratta di linguaggio. Sono forse andato troppo lontano? La neurobiologia moderna ha scoperto che le zone del cervello che presiedono all’emozione e quelle dedicate all’elaborazione logica sono contigue e che se una delle due si guasta anche l’altra non funziona. Tutti gli accaniti sostenitori di una separazione tra razionale e irrazionale, tra emozione e riflessione, tra spirito e materia, sono serviti. Spinoza lo aveva intuito più di tre secoli fa. La scienza moderna gli dà ragione; e dà ragione anche ad Aristotele. Fanatici accoliti di tutte le religioni, fatevene, appunto, una ragione. Quanto a voi, lettori di poesia: non indietreggiate davanti all’incomprensibile. E’ probabile che proprio entrando dentro quel labirinto (metafora!) ciò che vi appare incomprensibile diventi comprensibile e da quel punto ciò che avete appena compreso vi apra la strada per nuovi ancora incomprensibili territori. Non perdetevi d’animo. Ogni lettura scopre cose che alla lettura precedente erano sfuggite.
La comprensibilità dell’arte
A Firenze si litiga per un selfie davanti alla Primavera di Botticelli, a Roma per un Rigoletto che tradirebbe il capolavoro verdiano. Cerchiamo di capire che cosa suscita queste polemiche e che cosa le renda così accese e rabbiose. Ma, soprattutto, se si tratta di questioni distinte, o se abbiano invece una stessa radice culturale e sociale. I nostri padri – per non parlare di greci e romani – avevano, penso, un’idea più democratica dell’arte, di quella che mostra di avere oggi chi va in un museo, o visita città, cattedrali, rovine archeologiche sparse nel mondo. Anzi, forse, un’idea più complessa della democrazia e delle sue articolazioni sociali.
Oggi si ha l’idea che l’arte, qualunque arte, debba essere immediatamente comprensibile a tutti e da tutti quindi goduta, perché tutti hanno diritto di accedere ai beni di una società– tutti i beni: economici, fisici, artistici, culturali, del suo paese e dei paesi del mondo. È un’idea di democrazia assai simile a quella che identifica la democrazia con l’imposizione del volere dei più, senza tener conto dei voleri diversi delle minoranze. È l’idea che fa coincidere la democrazia con la sopraffazione delle masse. Ortega y Gasset l’aveva bene individuata, e prima di lui Toqueville, ed è un’idea che ha tormentato a lungo il pensiero di Benjamin (Hitler, e prima di lui Mussolini, arrivano democraticamente al potere: la marcia su Roma fu una pagliacciata a fatti compiuti); Adorno, e andando indietro, lo stesso Marx ne furono anch’essi tormentati. Gli antichi la chiamavano demagogia. Oggi si preferisce chiamarla populismo. È, peggio, un’idea trasversale, da destra a sinistra, e destra e sinistra si sono accusate e continuano ad accusarsi vicendevolmente di essere populiste. Il bello è che hanno ragione entrambe: quest’idea che tutti, infatti, hanno diritto a tutto ha fermentato il pensiero, chiamiamolo così, di molte dittature, sia di destra sia di sinistra.
Il realismo socialista in Unione Sovietica e l’arte non degenerata nelle dittature fasciste sono fecondate da questa idea. Non sto equiparando le dittature comuniste a quelle fasciste, si badi: sono realtà profondamente diverse, socialmente e culturalmente distanti. Ma nelle idee sull’arte hanno alcuni punti in comune. Prokofiev disse una volta che i politici russi accusavano di formalismo tutta l’arte che non capivano. Hitler, più deciso, la chiamava arte “degenerata”. I visitatori odierni di installazioni e mostre di arte moderna sono ancora più radicali: dicono, semplificando, che questa non è arte. A tutti costoro obietto: non è obbligatorio conoscere Botticelli, Debussy, Stockhausen, Cattelan. Ci sono diversi livelli, diversi campi, nel vastissimo campo dell’arte, nessuno superiore o inferiore all’altro, semplicemente diversi. Se amo Elton John e detesto Britten, non infrango nessun codice culturale, faccio la mia scelta artistica. Idem, il contrario. Inoltre: perché scandalizzarsi se solo un’élite “capisce” Botticelli e Debussy? Botticelli e Debussy dipingevano e componevano di fatto per una élite, non per tutti, Debussy, anzi, se ne vantava che la sua era una musica per pochi, per pochissimi. Nessuno, credo, oggi si scandalizza se tutti non riescono a capire la fisica dei quanti. Perché, allora, sarebbe uno scandalo se solo pochi apprezzano Botticelli e Debussy?
La democrazia della scienza e dell’arte non sta nel buttarla in pasto a tutti, ma nello sperimentare, da parte degli scienziati e degli artisti, e radicalmente, fino in fondo, il proprio ambito di conoscenza. Sta proprio in questa radicalità della sperimentazione, sia scientifica sia artistica la democraticità della conoscenza scientifica e artistica. Già, perché se a qualcuno sfugge, anche l’arte è un modo di conoscere la realtà, un momento, indispensabile, della conoscenza. E non è detto, e nemmeno auspicabile, che tutti gli ambiti siano destinati a tutti, siano capiti da tutti: sono ambiti culturali destinati non ai singoli, ma alla società nel suo complesso. E ogni società ha differenze di competenze, al proprio interno. Mica tutti sanno giocare al calcio, al tennis, mica tutti sanno fare un’operazione chirurgica al cuore o guidare un treno, un aereo. Ma nessuno pretende che tutti sappiano guidare un aereo, ci mancherebbe, e se sto male vado da un medico, non da un guaritore qualunque. Perché allora sarebbe antidemocratico che non tutti sappiano dipingere un quadro e non tutti sappiano cogliere il senso di un quadro, di un dipinto? Si è mai pensato che pochissimi hanno competenza dei giochi finanziari? Eppure decidono dei destini di popoli.
Dove sta il vulnus alla democrazia, allora, se non tutti capiscono immediatamene un’opera artistica? Ma se perfino in politica questa differenza di competenze trova il suo spazio, la sua giusta funzione. Ci si rifletta: perfino la Rivoluzione Francese, la Rivoluzione Russa e la Lotta Partigiana, non furono fenomeni di massa, ma movimenti guidati da una ristretta, ristrettissima, élite politica. Dispiace ammetterlo? Ma ristudiamoci un po’ per bene la storia, invece d’inseguire fuorvianti fantasmi di populistica inesistente uguaglianza. L’uguaglianza che fu pretesa a Parigi il 14 luglio 1789, e poi nel 1848, a Roma nel 1849, a Pietroburgo e Mosca nel 1917, da Martin Luther King e Cassius Clay negli USA, non è l’uguaglianza degli individui, l’azzeramento delle differenze individuali: l’uomo resta uomo e la donna donna, l’africano africano, il cinese cinese. Ma questa differenza non tocca l’uguaglianza dei loro diritti civili, comprende la differenziazione delle competenze, il medico è medico, l’artista artista, ma questa diversità di competenze non intacca i loro diritti civili; nessuno, davanti alla legge, è superiore o inferiore all’altro. Proprio perché le loro competenze sono diverse e a una società servono competenze diverse. Se tutti fossero falegnami, o pittori, e nessuno medico, o stagnino, come funzionerebbe una società? Attenti dunque ad accusare di avere la puzza sotto il naso quell’artista che dipinge opere incomprensibili alle masse, e di appartenere a un’élite privilegiata chi sostiene che per capire la Primavera di Botticelli si deve conoscere la cultura che l’ha permessa e prodotta. Quest’idea che l’arte venga colta da tutti, che tutti possano provare un’emozione davanti a un’opera artistica è un equivoco pericoloso. Potrebbe portare a negare a un artista difficile i mezzi per costruire la sua arte, un’arte che non tutti apprezzano e capiscono. Che differenza ci sarebbe con la censura delle dittature? Solo perché è salvata l’apparenza di libertà, e l’unica costrizione sta nel chiudere la borsa? Certo che esistono più livelli di comprensione e di fruizione dell’opera d’arte. E che è ammissibile anche quello elementare di chi, pur non capendoci molto, ammira ugualmente l’opera. Ma che cosa ammira? L’opera o il feticcio che la società dei consumi gli propone come oggetto da ammirare? Può sembrare folle, ma non lo è. È, invece, ossimoricamente insieme stupido e perverso. In una società che ha assunto a valore primario il profitto, il valore di ciò che lo genera è indifferente. Si ha così il livellamento di tutti i linguaggi a un solo linguaggio – nemmeno più verbale e tanto meno emotivo – ma l’unico linguaggio che abbia valore in una società guidata unicamente dall’interesse economico, dal profitto: il linguaggio del baratto, dello scambio. Una cosa significa qualcosa, ha valore per la società solo se genera opportunità di scambio, se attiva un processo che possa convertirla in valore economico. Il mueseo funziona. Ha valore, se vende biglietti. Un museo che nessuno abbia voglia di frequentare si chiude, non lo si finanzia più, per quanto preziose possano essere le opere che custodisce.
Lo avevano già capito Leopardi e Hegel: “qualunque guerra si fa solo per il pepe o per la cannella”, scrive il poeta e si noti la forza di quel “solo”, cioè tutte le volte che si dice che una guerra si fa per la libertà, per la civiltà, per la democrazia, si sta mentendo, in realtà la si fa per un interesse economico. Marx non dice niente di diverso, e, inorridite pure, nemmeno Hegel, che del resto di Marx fu il maestro. Nel novecento Benjamin e Adorno hanno scritto cose simili. Ma non sono più di moda nessuno di questi quattro pensatori (sì, anche Leopardi è un pensatore, e il pensatore è grande quanto il poeta).
Mi bastano meno parole per la seconda questione, anche perché l’ho già affrontata altre volte in altri scritti, anche in questo sito. Ciò che lega l’arte per tutti dei musei al disgusto di molti per le regie moderne, è stranamente la stessa idea di un’arte immediatamente comprensibile a tutti, che tutti devono godere allo stesso modo. E, a giustificare questo disgusto, si tirano in ballo le esecuzioni filologiche di musiche antiche, che ci restituirebbero la musica proprio come allora si suonava. E dunque che senso avrebbe da una parte questo scrupoloso rispetto filologico della partitura e poi dall’altro stravolgere le indicazioni del libretto, o del dramma – gli stessi che deprecano un Rigoletto intrufolato tra gangster, inorridiscono a guardare il bellissimo Coriolano di Shakespeare interpretato da Fiennes e catapultato nelle guerre balcaniche – che senso avrebbe, ribadiscono, trasportare l’azione in epoche diverse da quella presupposta dal dramma?
Allora chiariamoci due idee. La filologia. Ebbene: la filologia riguarda solo la restituzione dei testi. Improprio, dunque, chiamare filologica un’esecuzione. Di fatti oggi si dice, meno impropriamente, per la musica antica, esecuzione o interpretazione “storicamente informata”, vale a dire documentata sulle testimonianze di chi nel passato ne ha scritto. Fondamentale questa pertinenza semantica del termine filologia: riguarda, infatti, sempre, e solo, la restituzione di un testo secondo le probabili – probabili – intenzioni dell’autore. Ma a dire il vero, nemmeno di Saffo riusciamo a restituire un testo come probabilmente lei l’ha pensato e scritto. La lettura e l’interpretazione del testo è, invece, soggetta alla cultura del tempo in cui lo si legge e lo s’interpreta. Non potrò mai leggere una poesia di Saffo con l’idea che Saffo e i suoi contemporanei avevano di quella poesia. E così anche la pretesa fedele restituzione di un’esecuzione musicale “storicamente informata”, è puramente ipotetica, molto dipende dalla sensibilità del musicista. È un’idea tutta moderna che sia possibile una fedeltà assoluta al passato, idea fuorviante quanto quella di cambiare tutto senza criterio. Gli opposti si toccano. A distinguere la correttezza dall’arbitrio è infatti il criterio, non una supposta inesistente fedeltà alla partitura o al libretto: faccio solo ciò che c’è scritto. Impossibile. Restituire l’autenticità della partitura? Niente di più inautentico che la ricerca dell’autenticità, scrive Adorno nei Minima Moralia. Nessuno può farlo. Musica e teatro vivono proprio di ciò che non c’è scritto. Il respiro della frase musicale non è scritto nella partitura. Né le gradazioni dinamiche: quale forte rispetto a quale piano e dove, in quale luogo? I copioni – anche testi di altissimo valore letterario come le tragedie di Sofocle o di Shakespeare sono per gli attori copioni – i copioni non registrano la scrittura dei movimenti degli attori sulla scena, e quando li precisano, nella commedia borghese ottoentesca e del primo novecento, non indicano come l’attore debba compierli, con che voce dire le battute, quando fare una pausa, quando correre, e così via (anche la più precisa didascalia di un Giacosa, di un Pirandello, non esaurisce le possibilità d’interpretazione dell’attore).
Ecco, siamo al nodo della questione: sia il testo letterario di un dramma, sia una partitura musicale sono solo indicazioni più o meno precise per l’esecuzione. Copioni per l’attore, appunti per il musicista. Da Eschilo ad Alfieri i testi teatrali hanno solo i nomi dei personaggi, le entrate e le uscite di scena. E prima dei classici, prima dei musicisti romantici le partiture non indicano spesso nemmeno l’agogica del movimento: non sempre Bach indica se un tempo è Allegro o Presto o Andante o altro. Da qui le sorprendenti diversità tra le esecuzioni. Nel passato non ci si faceva scrupolo di leggere il passato come se fosse presente: Brahms suonava Bach e il suo amato Couperin sul pianoforte. Shakespeare si rappresentava ai suoi tempi con gli abiti dei suoi tempi, fossero romani o inglesi medievali i personaggi. Garrick, nel settecento, lo rappresentava con scene e costumi settecenteschi. Dunque, se mai, è molto più “filologica”, oggi, una rappresentazione con i costumi di oggi, che quelli supposte delle didascalie del dramma, perché non si fa altro che rispettare una pratica teatrale cominciata con il teatro stesso. Le tragedie greche sono piene di anacronismi. E i personaggi non indossavano costumi mitologici, ma quelli del proprio tempo. Lo vediamo anche nei vasi. I personaggi indossano abiti del VII-V secolo a. C., non quelli degli anni che precedono il primo millennio.
Non chiamiamola dunque trasposizione l’ambientazione di un dramma in epoca diversa da quella prevista dalla sua storia. Si tratta di riscrittura della drammaturgia. Obbligatoria, indispensabile, anche quando, apparentemente rispetta le epoche e i costumi delle didascalie. Perché comunque devo prevedere e precisare che gesti compie l’attore o il cantante attore, come si muove, da che parte va, se guarda il pubblico, l’altro attore, il fondale o dove. Il teatro greco e il teatro elisabettiano non prevedono l’intervento di attrici. Il Kabuki, all’origine, era recitato da sole donne. Restassi pure fedele all’ambientazione, alla moda dei costumi, se Lady Macbeth è interpretata da un’attrice tradisco, cambio Shakespeare. Possiamo fermarci qui. Non senza avanzare un dubbio. E se la paura di un arte difficile, che non tutti possano afferrare, se il disagio davanti a messe in scena che riscrivono la drammaturgia dell’opera, fosse solo paura di pensare? In fondo l’illusione della fedeltà, dell’adeguatezza al modello conosciuto, ci permette di abbandonarci fiduciosamente alle emozioni che ci aspettiamo di provare, sempre le stesse, e che il cambiamento disturba, obbligandoci a pensare le ragioni che l’abbbiano suggerito? Così facile rifiutare invece di pensare, di riflettere a ragioni diverse da quelle che mi aspetto. I conti tornano. Una società basata unicamente sul valore di scambio non ama chi pensa. Chi pensa disturba, magari mi sta dicendo che sbaglio, e io non voglio sbagliare, non voglio nemmeno sapere di sbagliare, non voglio reimpostare da capo i miei modelli di pensiero. È la via giusta per una società di sudditi, invece che per una società di cittadini. Così comodo sapere che sto nel giusto solo perché tutti pensano ciò che penso io e io penso ciò che pensano tutti gli altri. Il mio “particulare” è ciò che conta. Perciò mi rassicura che a tutti gli altri interessa che resti così com’è, che non verranno a disturbarlo, perché anche gli altri di “particulare” ne hanno uno del tutto simile al mio. Che bello sentirsi una massa uniforme e compatta, senza nessuno che venga a disordinarla!
Ci sarebbero molte altre cose da dire. Mi limito a proporre la visione di alcuni momenti del Coriolano di Shakespeare interpretato, magnificamente, da Ralph Fiennes. Si osservi la scena con Aufidio, la morte, l’abbraccio finale. E ditemi se non è Shakespeare, uno Shakespeare intenso, incandescente. Ascoltate come Fiennes modula la parola “boy”, come la butta in faccia al nemico: appare insieme come un insulto e una confessione d’amore, quel “boy”. L’amplesso che chiude la sua vita, chiarisce, però, e per sempre, il senso di quella parola: ed è il senso di una sconfitta. Coriolano, con il Re Lear, è forse la tragedia più cupa, più disperata di Shakespeare. La virtù, nel mondo, non vale niente. E nemmeno la bontà. I virtuosi come Coriolano, i buoni come Cordelia vengono immancabilmente soppressi. L’orgoglio in uno, la timidezza nell’altra, sono le maschere della verità. Ma il mondo non sopporta la verità, nemmeno quando indossa una maschera. Ecco perché l’arte difficile disturba. Il teatro che ci sorprende, ci disorienta, è un teatro che c’inquieta, preferiremmo non vederlo.
L’arte, in ogni epoca, in ogni popolo, in ogni cultura, si è sempre rivolta a un pubblico che ne condividesse i presupposti ideologici e culturali, ma soprattutto i codici d’interpretazione. L’arte universale, che tutti capiscono all’istante, al primo impatto, è una bufala inventata da alcuni scrittori romantici (non da tutti) e diventata epidemica nella società di massa. Ma perfino i romantici, quando parlavano di arte popolare, intendevano per popolo solo quello della cultura in cui una certa arte sorge, i greci per i poemi omerici, i popoli di lingua germanica per i canti nibelungici. Nasce questa idea subito fomentando un grande equivoco dalle conseguenze catastrofiche: l’assimilazione dell’identità linguistica con l’identità nazionale, e da qui i dilaganti nazionalismi, che hanno scatenato due guerre mondiali e che oggi si sono trasformati, lillipuzianamente, in sovranismi. Ma proprio questo radicamento nella cultura del tempo e in quella di una ristretta fascia del popolo che la produce, richiede oggi a chi vuole godere dell’arte del passato la fatica di fornirsi degli strumenti culturali per intenderne i codici. La lingua in cui è scritta la Divina Commedia si parlava solo a Firenze e non era intesa che dai fiorentini. L’operazione di Dante fu di allargarne il campo semantico e di renderla comprensibile anche a chi non parlava fiorentino. Ma ci vollero decenni. Già poco dopo la sua pubblicazione fiorirono i commenti al poema, per renderne più corretta la comprensione. Anche ai fiorentini stessi, visto il profluvio di parole non fiorentine (latinismi, grecismi, veneziano, lucchese, bolognese, e altre parlate locali) che sono disseminate nel poema. Per non parlare dei termini tecnici, scientifici, filosofici, poetici, artistici (la divagazione sulle miniature, nel Purgatorio, per esempio) che lo percorrono da cima a fondo (“l’amor che move il sole e l’altre stelle”, verso che chiude il poema, non si capisce se non si fa riferimento alla teoria del Primo Motore Immobile della cosmologia aristotelica tolemaica tomistica).
E’ sgradevole, certo, per molti, riconoscerlo. Ma l’arte del passato non si rivolgeva a tutti, bensì solo alla ristretta, anzi ristrettissima élite – si élite! – che ne condivideva cultura e codici. Anche il teatro, che sembra fenomeno più “popolare”, aveva, rispetto alla massa degli analfabeti, un pubblico piccolo, ristretto, borghesia, artigiani, non certo contadini, operai, schiavi. E anche se non capivano tutto, come non capivano, capivano il linguaggio, condividevano le convenzioni. Quando si fa la retorica del melodramma “popolare”, nel nostro Risorgimento, si dimentica che quel “popolo” non raggiungeva il 10 % della popolazione della penisola. il Risorgimento fu un movimento d’élite, ristretto, per niente popolare, anzi alla fine solo politico, Mazzini tentò di farlo diventare un movimento di massa, ma non ci riuscì. Il fallimento di Mazzini resta il problema irrisolto dello Stato italiano. Se ne può piangere, ma questi sono i fatti. La società italiana si rispecchia nei Crispi, nei Mussolini, nei Berlusconi, nei Salvini, e non certo nei Gobetti, nei Salvemini, negli Spadolini. Togliatti lo aveva capito. Ma il suo patto con i cattolici ha prodotto la catastrofe di oggi.
Ecco, oggi. La società di massa permette a tutti di usufruire di tutto. Anche di ciò che non è possibile capire al primo impatto. E l’uomo-massa pretende invece di capire tutto e subito e di avere il diritto di giudicare tutto e subito. Pensa che questo sia democratico. Ma democratico non è che tutti possano capire tutto e subito, bensì democratico è permettere a tutti di avere la possibilità di fornirsi quegli strumenti necessari a capire anche ciò che non si afferra subito, anche ciò che richiede informazioni e cultura, oltre che conoscenze specifiche. La fisica quantistica non è democratica perché tutti la conoscono e la capiscono, ma perché tutti, in uno Stato democratico che abbia un sistema d’istruzione democratico, possono studiarla, conoscerla e capirla. Robert Schumann, alle origini della moderna società di massa, scrive al riguardo, in un bellissimo aforisma: “Il filisteo vuole capire in un attimo ciò che all’artista è costato giorni, magari mesi, forse addirittura anni di lavoro”. Il filisteo schumanniano è quello che oggi è chiamato piccolo borghese. Perché poi alla fine si ritorna lì, anche l’arte è una questione di classe. E’ scritta, prodotta da una classe. Per una classe. Se un’altra classe vuole conoscerla e appropriarsene, deve impararla. Non lo dico io: lo scrive Marx nel Manifesto. La cultura di un’altra epoca, di un’altra classe, non la si consuma come un hamburger. La si apprende. Oggi invece la si vuole consumare, subito e in fretta. Un quadro richiede tempo a essere guardato, un libro a essere letto, una musica a essere ascoltata – ascoltata, non semplicemente udita: la differenza è sostanziale.
Invece per un’interpretazione musicale, per esempio, oggi spesso si parla di Pathos partecipato, condiviso, di emozione o di noia. Le emozioni, certo, sono legittime, e anzi fanno parte del rapporto con un’opera d’arte, ma non sono un metro di giudizio, quando se ne voglia parlare o addirittura scriverne. Bach non lo si può ascoltare senza filtri culturali con l’orecchio di oggi, e tanto meno è lecito discuterne. Un musicista così intellettuale come Bach richiede che entrino in campo altri fattori, come appunto la costruzione musicale, il senso di quella costruzione, le teorie musicali del tempo. Non si tratta di essere “ragionieri”, come qualcuno mi rimprovera, quando scrivo queste cose, si tratta, più semplicemente, di rispettare la scrittura, la cultura del compositore e del suo tempo. Bach non è un compositore romantico, che si rivolga all’ascoltatore “ingenuo”, anche se certamente si rivolge anche al sentimento dell’ascoltatore, i suoi intenti sono altri. Allora, ecco che se si entra nella sua logica costruttiva, nel suo bisogno di discorsività, e le si ascolta rispettate, si prova sicuramente un’emozione, anzi un’emozione immensa, molto più profonda di quella, superficialissima, futile, che si prova quando si pensa di avere sentito ciò che ci commuove al primo ascolto.
Faccio un confronto letterario. Dante è un poeta immenso, ed è così efficace che può colpire anche a una prima lettura, ma questa lettura può essere fuorviante. Tutti si commuovono alla storia di Francesca e pensano che Dante le abbia reso omaggio dimenticandosi che è una dannata. Ed è una lettura romantica, totalmente sbagliata, anche se è per esempio la lettura di un de Sanctis. Dante si commuove, invece, per tutt’altre ragioni. Francesca gli si rivolge con il linguaggio dello Stil Novo. “Amor che al cor gentil ratto s’apprende”, ma poi introduce in questo linguaggio particolari di un realismo spiazzante: “la bocca mi baciò tutto tremante”. Non è più il linguaggio dello Stil Novo ma della poesia realistica e, anche, o soprattutto, dei poemi cavallereschi che Paolo e Francesca leggono e che inducono all’adulterio, com’è adultero l’amore di Ginevra e Lancillotto. Ed è ciò che l’ha dannata. Dante sente crollare tutta la sua impostazione spirituale, lo Stil Novo che idealizza la donna, ne fa un angelo salvatore, lo scopre invece ambiguo, deviante, scopre che l’amore non salva, ma può invece portare anche alla dannazione, la donna angelo non è solo angelo, ma è anche un corpo che ti seduce e ti travolge, una bocca che ti bacia. E alla fine del racconto, Dante perciò sviene. Il mondo, un intero mondo filosofico, poetico, una visione della vita, una condotta di vita, gli erano crollati addosso. Doveva pertanto ridiscuterla tutta quanta, la propria vita. Ed è quello che fa con il viaggio nell’oltretomba, per guida la Ragione di Virgilio nei primi due regni, e poi l’angelo divenuto Sapienza, Teologia, Beatrice, alla lettera: che dà beatitudine, nel Paradiso. Ci si rende conto di quanto sia più complessa questa lettura rispetto alla pur affascinante lettura romantica, ma che non riguarda Dante, bensì il lettore romantico? La storia di Paolo e Francesca non è una semplice storia di amore, di adulterio, ma una storia che ridiscute i principi della vita, la filosofia della vita. E la Commedia è un poema filosofico.
Torniamo a Bach. La sua musica si prefigge, tra l’altro, ma non solo, di rispecchiare l’ordine del cosmo con la geometria della costruzione contrappuntistica. Un po’ come tre secoli prima (la cultura di derivazione pitagorica e neoplatonica è la stessa) Dufay nel mottetto per l’inaugurazione della cupola del Brunelleschi aveva costruito il tenor del mottetto sulle proporzioni dei raggi della cupola. È un mottetto sublime. Commovente: nuper rosarum flores, Santa Maria del Fiore. Ma la commozione nasce non solo dalla bellezza oggettiva della musica, bensì anche (o soprattutto?) se si pensa alla complessità del messaggio trasmessa attraverso la complessità della costruzione musicale. Bach, quasi allo stesso modo, vuole utopisticamente rispecchiare l’ordine dell’universo nella sua musica, come fa Brunelleschi nell’architettura, Dufay nel mottetto, come fa Dante, nel suo poema al quale hanno messo mano cielo e terra, ma vuole farlo – e qui sta la novità, la modernità – attraverso un procedere discorsivo, parlante, della musica: l’architettura contrappuntistica c’è, ma non è esibita, non è l’intento poetico, bensì lo strumento della poetica. Lo sforzo, dunque, non si deve sentire, il calcolo (nelle variazioni Goldberg ci sono canoni a tutti gli intervalli e l’intervallo di ciascun canone è dato progressivamente dalla sua collocazione nella serie delle variazioni divisa per tre: la terza variazione è un canone all’unisono, la sesta alla seconda, la nona alla terza, e così via). Ma quest’intelaiatura artificiosa e intellettualistica deve sfociare in un discorso scorrevole, risultare all’ascolto fluida come l’acqua che scorre. Ora, per esempio, tutto ciò nell’interpretazione di Gould si perde. Non c’è l’intelaiatura e non c’è la scorrevolezza.
Molti, anche, avanzano come argomento di giudizio sul valore dell’interpretazione di un musicista, la propria reazione emotiva. Legittima, si badi. Ma non è argomento di giudizio, bensì di gusto. Dire di un’esecuzione: mi fa dormire, è noiosa, non resisto per più di qualche minuto, non è un giudizio: è solo la registrazione di un personale riflesso emotivo, non riguarda né l’interpretazione, né l’opera, ma il proprio reagire all’interpretazione e all’opera. Molti dormono anche alla lettura di un dialogo di Platone o alle interpretazioni mozartiane di Bruno Walter. O esaltano, in contrasto, le inattendibili ed enfatiche interpretazioni di Karajan (sublime in Wagner e Bruckner, ma non certo in Mozart). Reazioni individuali che non costituiscono argomentazione. Si ascoltino con attenzione le interpretazioni scarlattiane o bachiane di Ross sul clavicembalo. E mi si dica solo quanto di quella fluidità discorsiva resta nell’interpretazione di un sempre troppo osannato Glenn Gould. Ecco: zero. E proprio sulla discorsività si regge invece tutta la costruzione musicale bachiana. Tanto che il suo amico Birnbaum, per difenderlo dagli attacchi di un altro professore dell’Università di Lipsia, che accusava Bach di non essere moderno, di essere artificioso, di essere noioso (gli stessi argomenti di alcuni ascoltatori di oggi!) paragona la sua costruzione musicale alla tradizionale (Quintiliano) costruzione retorica di un discorso. Se non si capisce che la musica dal seicento al settecento, prima dell’irruzione dei romantici, che comunque non abbandonano questa impostazione discorsiva, si regge proprio sulla discorsività, sul confronto tra le figure retoriche dell’orazione e il procedere di figure musicali che ne imitano musicalmente il procedimento, si rinuncia a capire due secoli di musica, per intenderci la musica da Frescobaldi a Mozart. L’eccitazione epidermica non ha niente a che vedere con la sensibilità musicale. “Affetto”, o come diremmo oggi, sentimento e sensiblerie, per quanto possa apparire strano, sono un atteggiamento intellettuale e non un solleticamento dei sensi. Avete mai sentito parlare di una Affektenlehre? Manuale dei sentimenti, eh già: manuale! mica istinto incolto. La reazione immediata, dunque, può cogliere il vero senso di un’opera solo se confortata dal necessario bagaglio culturale che l’opera richiede.
Già immagino l’obiezione. Ma come faccio, allora, proprio io che sostengo così decisamente l’indispensabilità di un bagaglio culturale per accostarsi all’opera d’arte, ad amare poi così spudoratamente le messe in scena moderne di opere classiche e barocche, e del teatro in genere? Non tradiscono, queste messe in scena che sfigurano e deformano l’opera, che stravolgono la collocazione temporale dell’azione, non deturpano di fatto l’opera stessa? Ma ci si rifletta. Le messe in scena moderne sono riscritture di opere del passato, riattualizzano il messaggio dell’opera o, più esattamente, lo rendono comprensibile al pubblico di oggi, che non condivide più i codici di quel tempo. L’impressione che una Traviata in costumi della metà dell’Ottocento sia più fedele all’idea che ne ha Verdi di una Traviata ambientata invece nella società di oggi, è un’impressione che nasce da una falsa idea. Perché a Verdi non interessava rappresentare una storia d’amore, ma contava invece proprio sulla percezione della contemporaneità dell’azione, per trasmettere un messaggio sociale, di denuncia sociale. Verdi, in qualche modo, anticipa il teatro borghese di Ibsen, anticipa Casa di bambola. Al pubblico di oggi una Traviata in abiti ottocenteschi fa l’impressione di una storia romantica, sentimentale, strappalacrime. Proprio ciò che Verdi non vuole rappresentare. Sfugge, cioè, la violenza con cui Verdi denuncia l’ipocrisia di una società che impone il rispetto dei ruoli sociali, un matrimonio tra Alfredo e Violetta è insostenibile, inammissibile, perché Violetta è una puttana (così Verdi la chiama nelle sue lettere). Poi, certo, c’è anche la passione di Violetta (di lei, più che di Alfredo), ma è una passione che si scontra contro le convenzioni sociali. La messa moderna mette in rilievo proprio questo scontro, porta in scena il conflitto sociale insuperabile, e perciò Violetta muore come un’eroina tragica, schiacciata dal conflitto. In questo caso, la messa in scena moderna svolge la stessa funzione che in un libro ha la nota a piè di pagina: commenta, spiega, ciò che accade sulla scena, lo illustra allo spettatore di oggi.
Del resto il teatro lo ha sempre fatto, ha sempre rappresentato le storie come storie contemporanee, anche quando sulla scena agivano gli antichi greci o gli antichi romani. Nella Bérénice di Racine, Tito chiama Berenice “Madame” e le dà del voi. Linguaggio della corte di Versailles, e non certo del Palazzo degli Imperatori Romani. Andiamo ancora più indietro: nell’Edipo a Colono di Sofocle, Teseo afferma che prima di decidere se accogliere o no il profugo Edipo, deve consultare l’assemblea, la Bulè, organo certo dell’Atene democratica e non certo dell’Atene monarchica del mito. Ma il pubblico al quale si rivolge Sofocle è il pubblico dell’Atene democratica. La pittura non agisce diversamente. L’Annunciazione di Leonardo non ambienta la scena nel primo secolo avanti Cristo, ma ci mostra una Madonna che è una gran Dama fiorentina del Quattrocento.
In conclusione: l’opera d’arte del passato, o di altri popoli e culture, che sia un libro, un quadro, una musica richiede la conoscenza della cultura che l’ha prodotta, e dunque tempo, fatica, studio. L’impatto immediato è consumistico, falso, fuorviante, a meno che non si possiedano gli strumenti culturali che lo favoriscano. Faccio un esempio estremo: se conosco il greco antico posso permettermi di commuovermi a leggere in greco l’Edipo Re di Sofocle. E ci si commuove, ve lo assicuro, assai più che se lo si legge tradotto in italiano o lo si vede a teatro (ma dipende!). Se conoscete il greco antico, provate a leggere Saffo in greco. Nessuna traduzione rende la violenza espressiva del verso “μόνα κατεύδω” (sola giaccio, sto nel mio letto) che conclude un frammento famoso. Troppo radical chic? E se fosse solo competenza? Oggi tutto si consuma e si vuole consumare in fretta e subito. L’Anello del Nibelungo richiede almeno 20 ore di ascolto. L’Orlando Furioso giornate, mesi di lettura. La Tempesta di Giorgione qualche ora di osservazione per coglierne l’interminabile complessità.
Diverso è il discorso per l’arte di oggi, ma per il semplice fatto che il pubblico al quale è destinata ne condivide, spesso, anche se non sempre, e non per tutti, le premesse culturali. Il che, però, non impedisce che invece a molti, che hanno idealizzato in un passato immaginario il proprio modello di arte, l’arte di oggi appaia astrusa, incomprensibile, cervellotica, o perfino brutta. E così si ritorna al punto di partenza: che l’arte non è rivolta a tutti, ma solo a coloro che hanno gli strumenti culturali per capirne di volta in volta la particolare realizzazione.
L’arte sarebbe, dunque, antidemocratica? Un affare di élite? Di élite, in un certo senso sì, se per élite però s’intenda chi possieda i codici per entrarvi dentro. Può essere dunque anche un intero popolo, o addirittura il mondo intero, per esempio nel caso di un film. O di una fortunata serie televisiva (che può essere arte, non arriccino il naso gli snob che disdegnano ciò che piace a tutti). Ma l’arte non è mai antidemocratica, perché – e ci s’intenda bene – vera democrazia non è essere subito capiti da tutti, ma fornire a tutti, di qualsiasi classe sociale siano, quegli strumenti adatti a capire un’opera d’arte. A questo servono, tra l’altro, i commenti e le messe in scena moderne. Ma a questo dovrebbe servire soprattutto un’istruzione che permetta a tutti, a chi è interessato, a chi vuole, quegli strumenti senza i quali non è possibile accedere al godimento di un’opera d’arte, e non solo di essa, ma di tante altre cose. La più chiara confutazione, infatti, della concezione estetica che Croce ha dell’arte come pura intuizione è dimostrata dal fatto che poi Croce stesso si dimostra incapace di comprendere l’arte che non rientri nei codici di una certa ristretta tradizione letteraria, in particolare di quella italiana postrinascimentale. Dante gli è estraneo, come gli è estranea tutta la poesia moderna da Pascoli a Mallarmé (ma già Leopardi gli riesce estraneo). Poi, per una certa affinità diremmo sentimentale, gli riesce di scrivere pagine mirabili su Ariosto, su Corneille, e perfino su Goethe. Ma di Ariosto non coglie l’irrequietezza, lo scetticismo morale, di Corneille il disincanto barocco nei confronti della realtà – lo stesso di un Pascal, di un Calderón, di uno Shakespeare -, di Goethe l’inquietudine demoniaca, ciò che Freud avrebbe chiamato l’ “inquietante”. Del resto, di Freud Croce si liberò liquidandolo con un motto sprezzante, che non gli fa onore. Se vivesse, gli farebbe bene, gli schiarirebbe anzi, forse, le idee, un breve saggio, pubblicato da poco, di uno studioso francese di filosofia araba, Jean-Baptiste Brenet, Averroès, l’inquiétant. Dante, ammiratore del filosofo arabo, l’avrebbe divorato sillaba per sillaba, infischiandosene della condanna di San Tommaso (che però non esita a saccheggiarlo).
L’arte e il bello
È opinione – sì, opinione, non idea o concetto, che sono, o dovrebbero essere, la conseguenza di una riflessione e non l’impulso di un gusto scambiato per giudizio, un pre-giudizio, appunto – è opinione abbastanza diffusa, e dannosissima per comprendere la natura dell’arte, che l’arte sia, anzi debba essere, la ricerca del bello. Proprio da questo termine cominciano gli equivoci: bello, in riferimento a che cosa, a quali modelli?
La bellezza femminile nel Rinascimento e nel Barocco è la donna prosperosa – Veronese, Rubens, lo stesso Rembrandt – quella di oggi sfida l’anoressia. Il canone di Prassitele non proponeva un modello ideale di bellezza, ma un calcolo esatto delle proporzioni. Ma andiamo, appunto, alle fonti, ahinoi equivocatissime attraverso i secoli, e cioè ai padri del pensiero occidentale, i Greci.
Aristotele non parla mai del bello, ma dell’adeguamento dell’opera a ciò che vuole rappresentare, e chiama imitazione l’operazione, ma non nel senso che l’arte imiti la realtà bensì in quello più profondo che propone un’interpretazione della realtà, che chiama il verosimile. L’arte non rappresenta il vero, ma il verosimile. Assai acuta la precisazione che non basta scrivere versi per fare poesia. Empedocle, Parmenide hanno scritto poemi sulla Natura, ma sono opere scientifiche, non poesia.
Dante capisce perfettamente il concetto aristotelico di arte. Perciò non confonde mai la realtà con l’invenzione poetica. Se mai è la poesia a sfidare la realtà, a farsi più reale della realtà, a porsi come modello di ciò che la realtà dovrebbe essere. I canti dei ladri, nell’Inferno, o la visione finale dei beati e di Dio, nel Paradiso, ne sono esemplificazioni sublimi. È per questo che Aristotele può giudicare la tragedia, la forma più alta di poesia, come più universale della storia, perché la storia racconta il particolare, l’individuale, la poesia, l’universale, lo stesso universale che la filosofia propone come concetto. Se non si penetra questa specularità di arte e pensiero, in Aristotele, non si comprende quanto molteplice, complessa, aperta e moderna, sia la sua concezione del rapporto dell’uomo con la realtà. A cominciare dal posto che il linguaggio occupa nel processo della conoscenza. L’arte è un momento, solo un momento di questo rapporto.
La riflessione scolastica prima e quella rinascimentale poi hanno schematizzato, fossilizzato questa concezione del rapporto tra arte e realtà, bloccando l’imitazione a copia del vero. E ciò, nonostante la Scolastica avesse approfondito enormemente le leggi della logica impostate da Aristotele e che nel Rinascimento si cominciasse a riflettere sui fenomeni naturali. Sfugge, però, a quasi tutta la riflessione rinascimentale, quella tensione razionale che Aristotele intravede anche nell’opera d’arte. Fa eccezione, forse, la riflessione di Tasso, nel Discorso sull’arte poetica. Tasso individua il Vero, ch’è l’oggetto dell’Arte, nella Storia, come tre secoli dopo farà Manzoni. Ma la poesia immette nella Storia, anche per Tasso, quella tensione ideale del pensiero che manca alla cronaca. Il resto è storia recente, costruzione di idee che sono ancora oggi le nostre idee sull’arte.
Gli illuministi proseguono la riflessione sul rapporto con la realtà e individuano nell’arte il campo in cui attori della produzione sono i sensi. I romantici compiono il passo successivo e individuano nel sentimento il campo dei sensi. Ma non sfugge al pensiero dei più grandi filosofi e poeti del tempo che la Ragione cacciata dalla porta dell’arte rientra nell’arte dalla finestra dell’idea, e anche il sentimento può incarnarsi in un’idea, addirittura in un’idea fissa, come in Berlioz.
Hegel mette ordine a questo complesso arcipelago di considerazioni sull’arte. Intanto, fissando il principio che arte si dà solo quando il pensiero umano la riconosce come tale. In natura il bello, l’arte non esiste. Un tramonto, la vista del mare, sono belli solo all’occhio dell’uomo. In sé sono solo fenomeni naturali, l’effetto della rotazione terrestre e la distribuzione delle acque sul pianeta. Accoglie dagli illuministi l’intuizione che le arti siano legate ai sensi, alla percezione, alle sensazioni e riformula il rapporto tra sensazione e opera. L’arte non è la percezione, ma il senso che do alla percezione, la rappresentazione della percezione. E in questo si fa pensiero della percezione, o sulla percezione. Hegel attribuisce a ogni senso un’arte particolare, alla vista la pittura, al tatto la scultura, alla percezione dello spazio l’architettura, all’udito la musica. La poesia, la letteratura costituiscono la sintesi di tutte le arti. Qui noi, oggi, non lo seguiamo più. Ma è notevole l’intuizione che architettura e musica siano arti il cui oggetto non è precisato perché è la loro stessa costruzione. Queste troppo rapide righe per dire quanto complessa sia, nel solo occidente, la concezione dell’arte, senza toccare le concezioni indiane o cinesi.
L’idea del bello come oggetto dell’arte risale a non più indietro del neoclassicismo, a Winckelmann. Hegel, che in qualche modo condivide l’idea, arriva perfino a parlare di un bello ideale, che in musica per lui sarebbe Rossini (e non Beethoven!). Ma qui entrano in gioco i gusti della propria educazione estetica. La riflessione, in Hegel, è più avanzata, più aperta, del suo gusto. Tuttavia ha scritto pagine mirabili sulla filosofia e sull’arte indiane. Prendete queste note come un appunto. Ma solo perché si sia più cauti, davanti a un’opera d’arte contemporanea, per esempio davanti a un’installazione che non capiamo, a decretare subito, con invidiabile oppure sciocca sicurezza, che quella non è arte. Chi si esprime così, in fondo, fa lo stesso effetto di quelli che nel Settecento dicevano che Shakespeare non è grande poeta perché non rispetta le unità drammaturgiche di azione, luogo e tempo. Si tende, infatti, ad apprezzare ciò che ci è noto, ciò che a un primo impatto ci disorienta ci spinge a rifiutarlo, disprezzarlo, ritenendo più ragionevole la nostra abitudine a essere rassicurati dal noto che la curiosità di capire ciò che non conosciamo. Ma senza curiosità non sarebbe possibile non solo nessuna arte, bensì nessuna seria attività umana.