Musica e linguaggio: la dizione nella musica vocale

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Quando i musicisti capiranno che la musica non parla solo di musica, forse riusciranno davvero a fare musica. Aveva ragione Liszt: la musica rinvia sempre ad altro che musica non è (la poesia fa lo stesso). Ciò non significa che bisogni trascurare le esigenze formali della musica, anzi significa che bisogna rispettarle fino in fondo. Perfino Beethoven allude ad altro che musica non è. E anche Bach. Anche Josquin. Proprio per questo radicalizzano il rigore della scrittura musicale. La riflessione mi nasce dall’ascolto, e dalla visione, di un inascoltabile e insopportabile Rinaldo di Handel trasmesso in questo momento da RAI 5, registrazione di uno spettacolo di Martina Franca del 2018. Non si capisce una sola parola di ciò che cantano. E sperano così di fare teatro? Pur troppo devo constatare che i cantanti di oggi sono spesso indifferenti alla dizione di ciò che cantano, più preoccupati invece della giusta emissione, dello stile. Basta ascoltare cantanti degli anni 40 e 50 del secolo scorso per rendersi conto del cambiamento. Una Caniglia si sarebbe vergognata di non far capire le parole che cantava. E lo stesso un Fischer-Diskau, che cantasse il Falstaff o un Lied di Schubert o di Schumann. Il Don Giovanni salisburghese di Currentzis è stato massacrato dai vociomani e dai patiti del Mozart asettico ma supposto fedele alla prassi settecentesca. Eppure finalmente si ascoltavano recitativi di cui non sfuggiva una sillaba. E nelle arie non una parola risultava imprecisa, impercettibile. Ed è esattamente ciò che voleva Mozart. Leggete il suo epistolario. Ma veramente viviamo nell’epoca in cui appare vero ciò che non è dimostrato o non ha nessun fondamento. L’utopia della musica “assoluta”, anche vocale, è un’idea delle avanguardie del secondo novecento. E solo lì trova giustificazione. Luigi Nono o Pierre Boulez possono totalmente oscurare la comprensione del testo, perché il senso è trasferito altrove. Ma operare la stesso tipo di esecuzione con Handel o Mozart è un crimine che grida vendetta, anche perché non li riguarda. Il senso della musica a prescindere dal testo o dell’occasione, è un carattere tipico delle avanguardie, dove ha senso. Fuori del quel contesto è un errore d’interpretazione. Non entro nella scansione metronomica della concertazione di Luisi. Richiederebbe un discorso troppo ampio e complesso. Ma il settecento metronomico mi ha sempre irritato.

Da questa osservazione di cronaca è nata una riflessione.

Il linguaggio e la musica hanno in comune non, come per un certo tempo si è creduto, di essere due forme di linguaggio, ma di adoperare, per costruirsi, la stessa materia: il suono. La musica non è linguaggio che metaforicamente – come ben sapevano i teorici musicali medievali che per primi hanno istituito il confronto tra musica e linguaggio, sempre tenendo però presente che il confronto era appunto un paragone e non un riconoscimento di somiglianza – i procedimenti musicali non hanno significati, alla musica manca la doppia articolazione del linguaggio che permette il riconoscimento preciso di un significato. Rosa – rose distingue un singolare dal plurale semplicemente cambiando la vocale finale. Una modulazione da una tonalità a un’altra è solo una modulazione: concettualmente non vi corrisponde niente. Tant’è vero che il significato di una musica, per secoli, anzi per millenni, lo si è fatto derivare dal testo intonato. La musica strumentale acquista una sua autonomia a cominciare dal cinquecento, e a imitazione della musica vocale. Il riconoscimento di significati emotivi nei procedimenti musicali comincia con il madrigale, e per imitazione gli stessi procedimenti trasferiti nella musica strumentale finiscono con acquistare lo stesso significato emotivo. Per esempio la quarta discendente come espressione del lamento. Il Lamento della ninfa di Monteverdi e il lamento di Didone nel Dido and Aeneas di Purcell sono costruiti su una quarta discendente. Così pure il Lamento per la lontananza del fratello dilettissimo di Johann Sebastian Bach, che è un brano strumentale. Anche la cadenza di una seconda minore, in genere un’appoggiatura, acquista il senso di un lamento. “Che farò senza Euridice”, dall’Orfeo ed Euridice di Gluck, è nella chiara tonalità di do maggiore (tanto per sfatare la leggenda che il maggiore è gioia e il minore dolore: Bach ha minori gioiosi e Chopin maggiori dolorosi). Il senso del lamento è dato dall’appoggiatura. Ma torniamo, ora, al fatto che musica e linguaggio, invece, adoperano la stessa materia: il suono. Una lingua non è composta di sole vocali, ma un ruolo importantissimo è svolto dalle consonanti. La stessa successione di vocali può acquistare significati diversi a seconda delle consonanti che le accompagnano. Casa e cara si distinguono solo per il fatto di avere tra le due a una consonante diversa: la r e la s. Il significato è però abissalmente differente. Viso e vino presentano la stessa differenza: cambia la consonante. Che voglio dire con questo? Che sono proprio le consonanti e non le vocali a rendere significante una parola. Le vocali, poi, hanno più o meno peso, a seconda delle lingue. L’italiano è una lingua povera di vocali, ne possiede solo sette, che nel parlante comune diventano cinque perché non si distingue la e e la o brevi da quelle lunghe, le aperte dalle chiuse. In inglese, in francese, in tedesco le vocali sono di più, e contribuiscono a differenziare i significati. Che cosa accade quando un cantante trascura l’emissione di una consonante? Che fa perdere il riconoscimento del significato della parola. Lo sanno benissimo i cantanti inglesi e tedeschi quando cantano nella propria lingua, perché fanno sentire distintamente la consonante finale della parola, assai frequente nelle loro lingue: short, Stadt. Pertanto quando un cantante, cantando in italiano, invece di dire cara dice ca-a, quel ca-a può significare tante cose, casa, cara, capa, cava, ecc. Il cantante tedesco o inglese sa che se non fa sentire la t finale di short, il gruppo dt di Stadt, l’ascoltatore non individuerebbe la parola e pertanto pronuncia quelle consonanti. Perché in italiano non fa lo stesso con le consonanti intermedie? Perché si è introdotta l’idea, falsa, che la bellezza della lingua italiana sia dovuta all’armonia del suo sistema vocalico. Ma un musicista che non percepisca come indispensabile anche il suono della consonante finisce paradossalmente per attenuare la sua sensibilità di musicista. Perché una consonante è suono quanto una vocale e materia della musica è, come si è detto, il suono, ogni suono che contribuisca all’articolazione di una lingua, nessuno è più importante di un altro, tutti svolgono una funzione, sia le vocali sia le consonanti, le vocali, si è visto, per distinguere ad esempio il singolare dal plurale, o la persona del verbo, vedo vedi, la consonante per distinguere il significato della parola, casa cara. Ecco il lavoro che deve fare il cantante: imparare a emettere tutti i suoni di una lingua, le vocali come le consonanti. Troppo facile appoggiarsi alle vocali per ottenere la giusta emissione. La difficoltà sta nell’ottenerla emettendo anche il suono delle consonanti. Nelle scuole di recitazione questa è una delle prime regole che deve imparare un attore (oltre a quella, fondamentale, di pronunciare distintamente le sillabe finali di una parola, sempre, tutte). Anche il cantante è un attore, un attore che canta. Deve pertanto sottoporsi anche lui a questo esercizio. Il cantante che non lo fa crede di ubbidire a esigenze musicali, e invece sono proprio le esigenze della musica che infrange, perché anche le consonanti sono suono. In alcune lingue, per esempio le lingue slave, ma non solo, anche nelle lingue del subcontinente indiano, nell’antico sanscrito, esiston suoni che consideriamo consonantici e sono invece percepiti come vocalici o meglio ancipiti, sia consonantici sia vocalici, o semivocalici: il w inglese, la v latina (nel latino classico v e u avevano lo stesso suono e si scrivevano con lo stesso carattere, video si pronunciava uideo o, meglio, wideo). Tra questi suoni, in particolare la l e la r. Il capoluogo della Moravia si chiama Brno, che gli italiani tendono a pronunciare Brnò. E sbagliano, perché la r ha suono vocalico e va accentata, devo dunque dir Br’no. In polacco la l intervocalica ha suono vocalico. Lo sanno quanti ricordano il cognome polacco di Giovanni Paolo II, Woytila, in cui la l ha appunto suono vocalico. Queste note sono solo un appunto sintetico, per un problema che richiederebbe maggiori spiegazioni. Ma spero di avere, quanto meno, fatto sospettare la complessità con cui si deve affrontare l’interpretazione di una musica vocale, in qualsiasi lingua, ma soprattutto in italiano, una lingua che sembra favorire la preminenza delle vocali sulle consonanti, e non è vero. L’italiano deve la sua armonia, anzi, proprio allo straordinario equilibrio tra suoni vocalici e suoni consonantici. È il motivo per cui m’infastidiscono sia la dizione settentrionale che chiude tutte le vocali sia quella meridionale che invece le apre. La bellezza delle parlate centrali, soprattutto toscane, ma non solo, sta invece proprio nell’equilibrio tra consonanti e vocali. A Roma, tuttavia, questo equilibrio si è rotto. E, suppongo, per sempre. Le cause sono molteplici, non ultima l’immigrazione dal resto del paese. L’indicazione dantesca del modello romano, dunque, oggi è un’utopia. A mio avviso, invece, gli italiani conoscerebbero meglio la propria lingua e la parlerebbero meglio se si sforzassero di imparare anche altre lingue. Magari più di una. L’ideale sarebbe almeno tre, ma già sarebbe una conquista se ne imparassero almeno una. L’inglese che gli italiani ormai credono di sapere e che condiscono in tutte le salse, così come oggi lo parlano i più degli italiani fa accapponare la pelle, è inascoltabile. Ma peggio, gli italiani stanno disimparando il francese. Ho sentito alla radio un noto critico letterario dire Psiké, per Psyché (Psiscé), titolo di un poema sinfonico di César Franck. Sullo spagnolo stendiamo un velo pietoso. Si continua a dire, per esempio, “il murales” senza percepire che si tratta di un plurale. E la Crusca, a mio avviso follemente, lo sancisce come ammissibile. Ma è antica percezione degli italiani che lo spagnolo si caratterizzi per la presenza ossessiva di una s finale in tutte le parole. Nel Cinquecento Andrea Calmo scrive una commedia che intitola La Spagnolas. Bellissima, divertentissima. E che prende in giro, tra l’altro, proprio questa distorta percezione della lingua spagnola.

NOTA:

“Il linguaggio e la musica hanno in comune non, come per un certo tempo si è creduto, di essere due forme di linguaggio, ma di adoperare, per costruirsi, la stessa materia: il suono”.

Questa frase, con cui attacco il pezzo sotto forma di post, su Facebook ha dato del filo da torcere a qualcuno. Anzi c’è stato chi mi ha addirittura corretto, rimproverato, sostenendo che manca qualcosa o la frase è sbagliata. Mi accorgo che la scrittura complessa, fitta di incisi e subordinate, riesce oggi difficile se non addirittura inesplicabile al frettoloso lettore, soprattutto se lettore di social. Avessi scritto: “Il linguaggio e la musica hanno in comune di adoperare la stessa materia: il suono. Non sono invece, come per un certo tempo si è creduto, due forme di linguaggio”, sarei stato certo immediatamente comprensibile, ma non avrei reso la complessità del fenomeno con una complessità analoga del linguaggio che lo dice. Ma che paura si ha dello scrivere complesso? Non è vero che lo stile moderno è paratattico. Ahinoi, è stato detto anche questo, come è stato detto che il romanzo è morto, che la poesia è morta. Lo stile moderno (ma quale è poi questo stile moderno?) è paratattico quando serve essere paratattici, ma è complesso, irto di incisi e subordinate, quando vuole restituire, anche linguisticamente, la complessità del fenomeno che descrive. Va bene così? Spiegato bene? O manca qualcosa?

Qualcun altro la difficoltà la incontra nel periodo seguente: “La musica non è linguaggio che metaforicamente – come ben sapevano i teorici musicali medievali che per primi hanno istituito il confronto tra musica e linguaggio, sempre tenendo però presente che il confronto era appunto un paragone e non un riconoscimento di somiglianza – i procedimenti musicali non hanno significati, alla musica manca la doppia articolazione del linguaggio che permette il riconoscimento preciso di un significato”. La difficoltà nasce dall’incomprensione del “che” che precede il trattino. Certo, se lo s’interpreta come un pronome relativo la frase è sospesa, ma il fatto è che si tratta invece di una congiunzione, corrispondente a un “ se non”: “La musica non è linguaggio se non metaforicamente”. Sarebbe stato più chiaro se avessi scritto così? Forse. Ma anche qui avrei distrutto il carattere ellittico della scrittura, il rinvio a quanto segue proprio perché non precisamente definito quanto precede. Miei cari, la prosa si costruisce, non la si butta giù di getto. E anche quando vuole sembrare buttata giù di getto, va costruita ancora più accuratamente. La scrittura è applicazione, non come viene viene, come mi dice l’istante. Ecco, anche quest’ultima frase è calcolata per sembrare parlata, spontanea. La spontaneità nella scrittura è un artificio, non un processo automatico.

Bibliografia essenziale:

Carl Dahlhaus, H.H. Eggebrecht, Che cos’è la musica? , Bologna, il Mulino, 1988.

Carl Dahlhaus, L’Estetica della Musica, Roma, Astrolabio, 2009

Carl Dahlhaus, L’idea di Musica Assoluta, Roma, Astrolabio, 2016

- 31/07/2022
TAGS: musica

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