Le ambagi del male

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“Tarde non furon mai grazie divine”

Machiavelli

Publio Ovidio Nasone fu “relegato”, cioè esiliato, a Tomi, piccolo porto sul Ponto, oggi Costanza, in Romania, sul Mar Nero, nell’ 8 d. C., per motivi che ancora oggi non sono stati chiariti appieno. Nei Tristia, elegie che, insieme alle Epistulae ex Ponto, compose nei dieci anni che durò l’esilio, fino alla morte, nel 18 d. C., Ovidio scrive in modo misterioso:

Perdiderint cum me duo crimina, carmen et error
Alterius facti culpa silenda mihi.

(Tristia 2, 1, vv. 207-208)

(Due crimini mi hanno perduto, un carme e un errore:
del secondo debbo tacere la mie colpa) traduzione mia

Poco prima (vv. 103-106), nella stessa elegia, si era chiesto:

Cur aliquid vidi? cur noxia lumina feci?

Cur imprudenti cognita culpa mihi?

Inscius Acraeon vidit sine veste Dianam:

Praeda fuit canibus non minus ille suis.

(Perché vidi qualcosa? perché feci colpevoli gli occhi?

Perché imprudentemente venni a scoprire una colpa?

Senza volerlo Atteone vide svestita Diana:

Fu preda ciononostante dei suoi stessi cani) traduzione mia

Intriso fin dall’infanzia di favole mitologiche, Ovidio veste di mitologia anche la propria vita. E contro il “perfido” (oggi diremmo “traditore”, come bene traduce il termine nel libro di cui qui si scrive Maria Clelia Cardona) l’innominato nemico che fa togliere i suoi libri dalle biblioteche, che forse insidia o fa insidiare sua moglie, che approfitta della sua disgrazia. Lo stesso Imperatore Augusto? Molti studiosi oggi tendono a supporlo, e l’idea, sia pure con prudenza, non dispiace a Cardona, che è la curatrice, traduttrice, commentatrice di questa bella edizione di un poemetto nel quale Ovidio sfogò tutta la sua rabbia, il suo odio, il suo rancore la sua giustificata disperazione per una condanna, prima che morale, politica, che sente di non meritare e che gli strappa versi di grande disprezzo per chi di quella disgrazia forse è l’autore, ma senz’altro anche, o soprattutto, l’infame profittatore: Publio Ovidio Nasone, Ibis, Milano, medusa, 2023, pagg. 130, € 16,50. La dotta, puntuale Introduzione copre le pagine 5-35, da pag 40 a pag. 77 il testo latino con traduzione a fronte, le fittissime, imprescindibili, Note, da pag. 79 a pag. 122. Le pagine restanti per l’indice, le abbreviazioni, la bibliografia.

Oggi lo chiameremmo un pamphlet contro qualcuno. Ovidio si scusa di scriverlo in distici elegiaci, metro che non si adatta a una guerra. Ma quando la guerra vera verrà egli non esiterà ad adottare il metro adatto: il giambo, “Postmodo, si perges, in te mihi liber iambus / tincta Lycambeo sanguine tela dabit”, (In seguito, se insisti, il libero giambo mi darà contro te / frecce tinte del sangue di Licambe, vv. 51-52).

Ciò che colpisce subito il lettore è il doppio registro dell’angoscia, della tristezza, per la propria condizione di esiliato, in qualche modo per la sua immotivata, ingiustificata, condanna – “nec quemquam nostri, nisi me, laesere libelli” (i miei libercoli non fecero male a nessuno, tranne che a me – da una parte, e dall’altra il furore di una rabbia, di un odio, di una volontà punitiva, distruttiva, apocalittica con cui si augurano al nemico innominato le peggiori sventure, i più dolorosi supplizi, le più atroci e spaventevoli morti. Ma Ovidio non è un nostro contemporaneo. Almeno non in questo senso, perché invece come poeta è forse il più attuale, il più contemporaneo dei poeti augustei – Lucrezio è un universo a parte, un bacino al quale attingono tutti, anche Ovidio, non parliamo di Virgilio, senza nominarlo, e la sua è una contemporaneità d’altra specie, per esempio un singolare invito a una vita e a un pensiero che oggi diremmo laici – . E dunque Ovidio non scrive un pamphlet vero e proprio, come lo avrebbe scritto un Voltaire o oggi un Pasolini, ma intesse una complicata, intricatissima tela mitologica dentro la quale intrappolare il detestato nemico. Se l’Ovidio degli Amores, delle Heroides, delle Metamorfosi, ha attraversato il Medio Evo, il Rinascimento, l’Età Moderna e quella Contemporanea come celebrato e imprescindibile poeta del moderno, qualunque cosa fosse via via il moderno, le avventure di Tristano, le smanie di Bernard de Ventadorn, le visioni infernali di Dante, i deliqui di Petrarca, le voluttà dei madrigalisti rinascimentali, le fantasie di Ariosto, gli spasimi di Tasso, le irrequietezze di Shakespeare, l’estasi metaforica di Donne, se tra gli antichi, fu forse il poeta privilegiato, per i critici, per gli storici della letteratura latina, l’Ibis, questo poemetto che trasuda in ogni distico odio e rancore, non ha avuto la stessa fortuna, tranne qualche apprezzamento in epoca rinascimentale. E tuttavia, chi sa, l’Hypnerotomachia Poliphili attribuita a Francesco Colonna e stampata da Aldo Manuzio a Venezia nel 1499 così come l’Andreae Alciati Emblematum Libellus, stampato a Parigi nel 1534, potrebbero dovergli qualcosa, se non altro la ramificazione degli “emblemi” da decrittare. E si potrebbe anche pensare al Roman de la Rose, alla sua versione italiana attribuita a Dante con il titolo di Fiore. Ed emblemata sono le iconografie mitologiche dell’Ibis, indovinelli da sciogliere non già con la sapienza oracolare di un Edipo, bensì con l’aiuto di un repertorio mitologico, perché no le Fabulae di Igino? Ovidio parla di “ambages”, da amb + ago, girarci intorno, il Calonghi traduce tortuosità, giravolta, labirinto, ambagi, enimma. E torniamo alla Sfinge di Edipo: αἴνιγμα Ernst Friedrich Leopoldo, nel suo Lexicon Graeco-Latinum, lo traduce aenigma, sermo obscurus” e ἔμβλημα è reso con “quicquid insertum est, insertio, sigillum poculi, opus tessellatum“. Nell’Ibis Ovidio si fa sacerdote e, soprattutto, “vate” (ma come potrebbe essere diversamente?), di un rito di maledizioni: più che a streghe tessale si pensa a un vero e proprio rito iniziatico di conio dionisiaco: nella Baccanti di Euripide il rito punitivo consiste nello smembramento di Penteo. E Ovidio di Euripide è un lettore acutissimo, penetrante. Tra le lettere delle sue eroine quella di Medea è forse la più affascinante, la più inquietante, e proprio a Medea Ovidio aveva dedicato la sua unica tragedia, della quale non finiremo mai di lamentare la perdita. Sembra che fosse bellissima e qualcosa ne deve essere stato travasato in quella di Seneca, che a sua volta è la fonte di quella, bellissima, di Corneille. Il poeta vate si fa, oltre che interprete, proprio in quanto poeta, della lingua, del parlare, del significare, scrutatore dei sentieri tortuosi (ambages) del linguaggio, e dunque sacerdote del rito d’iniziazione al mistero della vita e della morte, ma qui soprattutto della sofferenza, della morte, come se solo le favole allusive del mito, il labirinto delle figure che disegnano la storia del cosmo potessero delucidare, spiegare l’inspiegabilità del male, la gratuità della sofferenza, e dare un senso a una realtà che non ne possiede nessuno. Nelle Metamorfosi Mirra non comprende l’irrigidirsi del corpo e divenuta tronco non sa comprendere le doglie del parto che dà vita ad Adone, il giovane bellissimo che seduce perfino la dea stessa dell’amore, della vita, Afrodite, Venere, come la chiamano i latini. Come se solo dal dolore possa generarsi la bellezza che a sua volta genera altro dolore. Adone è ucciso dal cinghiale caledonio, e l’immortale forza della natura, la sorgente della vita, Afrodite, deve arrendersi all’ineluttabilità della vita che scompare. Lucrezio ne fa la metafora della vita che si evolve per tutto il pianeta e la invoca all’inizio del poema: “Alma Venus”, Venere nutrice. Né si dimentichi che le favole mitologiche per il credente antico sono vere quanto lo sono per il cristiano i miracoli dei santi. Pochi intellettuali ne dubitano, e sono a rischio di linciaggio se lo manifestano troppo apertamente. La damnatio memoriae subita da Lucrezio, nel mondo antico e per tutto il Medio Evo, si deve probabilmente proprio all’empietà di dubitare dei miti. La sua riscoperta rinascimentale lo accoglie invece proprio perché ne dubita. E il mito diventa così una figura del discorso. Nomino Efesto per nominare il fuoco. Lo fa già Eschilo nell’Agamennone, quando Clitennestra spiega al Coro dei Vecchi Argivi il sistema dei fuochi che si accendono via via dall’Ida ai monti che attorniano Argo per annunciare la caduta di Troia.

Prendiamo, dal poemetto, qualche esempio a caso. Il rito ha inizio:

Pompa parata tibi est: votis mora tristibus absit:

da iugulum cultris hostia dira meis.

vv. 103-104

(È pronto per te il corteo: nessun indugio ai miei voti di malaugurio:

offri la gola, vittima funesta, al mio coltello)

Questa, come le altre traduzioni dall’Ibis, sono tratte dal libro curato da Cardona.

La nascita del nemico da maledire è funestata da sinistri auspici. Lo allevano le Erinni, eufemisticamente chiamate Eumenidi, le benevole, e sgorgano lacrime interminabili dagli occhi del bambino, lacrime intinte nel nero dell’Erebo. Implacabile il vate “sacerdos” dà inizio alle maledizioni. Le Parche assistono e una parla. Ed è perfino “loica”, direbbe Dante, disquisisce, come Aristotele, di cause “sufficienti”.

Flebat ut est fumi infans contactus amaris:

De tribus est cum sic una locuta soror:

“Tempus in immensum lacrimas tibi movimus istas

Quae semper causa sufficiente cadent”.

Dixerat: at Clotho iussit promissa valere,

Nevit et infesta stamina pulla manu,

Et, ne longa suo praesagia diceret ore,

“Fata canet vates qui tua – dixit – erit”.

Ille ego sum vates: ex me tua vulnera disces.

vv. 237-244

(Piangeva, come accade a un bambino raggiunto da fumi acri,

e allora così parlò una delle tre sorelle:

“Perché durino all’infinito ti provocammo queste lacrime

che avranno sempre un buon motivo per cadere”.

Aveva detto: e Cloto ordinò che le promesse avessero effetto,

e con mano infesta filò strami neri,

e, per no fare con la sua bocca una lunga profezia,

“Ci sarà un vate” disse ” che canterà i tuoi destini”.

Sono io quel vate: da me apprenderai le tue disgrazie).

Ed ecco alcune maledizioni:

Inque tuo thalamo ritu iugulere Pheraei

Qui datus est leto coniugis ense suae.

Quosque putas fidos, ut Larissaeus Alevas

vulnere non fidos experiare tuo.

Utque Milo, sub quo cruciata est Pisa tyranno,

Vivus in occultas praecipiteris aquas.

vv.319-324

(Che tu sia sgozzato nel tuo letto al modo del tiranno di Fere,

Cui dette morte la spada della moglie.

O quelli che ritieni fidati, come accade ad Aleva di Lárissa,

Tu possa invece con la tua ferita sperimentare infidi.

O come Milone, sotto la cui tirannia fu straziata Pisa,

Tu sia gettato vivo in acque occulte).

E via di seguito, orrore dopo orrore, strazio dopo strazio, fino al distico che conclude il poemetto e che promette la rivelazione del nome del nemico maledetto:

Postmodo plura leges et nomen habentia verbum,

Et pede quo debent acria bella geri.

vv. 641-642

(In seguito leggerai più cose, e avranno il tuo vero nome, e saranno

scritte nel metro con cui si devono combattere le aspre guerre).

Non si può non ammirare la fatica – vero e proprio labor di filologa, storica e traduttrice – con cui Maria Clelia affronta la lettura, la traduzione e i commenti di così – alla lettera – enigmatici versi, l’abilità con cui rende nella lingua di oggi una lingua volutamente iniziatica, misteriosa, anche se pur sempre cesellata con manieristica bravura di retore, adornata di figure che non nascondono il piacere di tuffarsi nell’edonismo erudito di Callimaco: comincia qui, può darsi, quella poesia moderna che non può fare a meno di nutrirsi della citazione della poesia precedente, non compiacersi del fascino del catalogo, si potrebbe perfino pensare a Eliot e a Pound, ma indietro la memoria va al vituperato Omero, il cui oro, secondo Callimaco, è sporcato da molto fango, e tuttavia nemmeno un Callimaco, e ancora meno un Ovidio, possono sfuggire alla sfida di ripetere la prodezza del catalogo delle navi. Senza contare il filtro di Esiodo, la sua Teogonia, e soprattutto il Catalogo delle donne, Eoie, come veniva anche chiamato, ἢ οἵη, in cui il sapore della ripetizione assume una sacralità rituale. E di sacralità, forse, è il caso di parlare anche per questo Ibis, meraviglioso uccello che fruga nei propri escrementi, e perciò forse da Greci e Latini schifato, ma che per gli Egizi è il dio della scrittura, Thot, il dio della matematica, della conoscenza. E, come si sa, Callimaco viveva ad Alessandria, e si curava della famosa Biblioteca, fu, anzi, in qualche modo, il fondatore della filologia moderna. E proprio al suo Ibis, scritto da Callimaco può darsi contro Apollodoro, l’autore del poema Gli Argonauti, per polemica letteraria o per un sospetto di plagio, si ispira Ovidio. Cardona doveva, dunque affrontare un panorama culturale immenso. E vi si muove con l’agilità di una Sfinge che invece di proporli li risolve, gli enigmi. Anche in questo la cultura ellenistica ci assomiglia, è anzi la fonte della nostra cultura, E Roma è, tutto sommato, una città ellenistica. L’ultima. Da questa cultura abbiamo ereditato il fatto che la più minuscola delle opere letterarie possa concentrare in sé stessa la memoria di una tradizione millenaria. Fino ad oggi. Le concentratissime visioni di Ungaretti – guarda caso, anche lui di Alessandria d’Egitto – non possono non richiamare alla memoria gli epigrammi di Callimaco, di Asclepiade, Meleagro, e perfino quelli tardi, di Pallada, poesia nei cui confronti ci commisuriamo oggi in un modo non diverso da quello con cui si misuravano i poeti latini, Catullo, il grandissimo Properzio, Tibullo, Marziale, e lo stesso Ovidio. La lettura dell’Ibis potrebbe farci riflettere se non sia giunta a una svolta, a un termine, oggi, anche questa tradizione. E la poesia moderna non sia ormai che un’apotropaica celebrazione della propria fine. Una serie di maledizioni per scansare la maledizione ultima, quella della scomparsa. O perché inghiottita dalla banalità di un reale non più mitologico, non più passibile di metafora, o perché l’unica metafora che sopravvive resta in fondo proprio quella dell’estinzione, che non è detto sia immediata, potrebbe annichilirsi a poco a poco, sopravvivere in un’agonia perfino più lunga della tradizione che l’aveva fatta nascere. Rileggiamoci l’Alto Medioevo Latino di Gustavo Vinay: mille anni che gli Umanisti del Quattrocento dissero bui, ma che non avrebbero potuto generare l’Umanesimo se fossero stati davvero senza luce. Boezio, Occam, Duns Scoto, Chrestien de Troyes li leggiamo ancora, cantiamo ancora il cantus planus. E quante volte abbiamo detto, scritto, che un mondo era finito? Salvo poi ricrederci al primo barbaglio di una inaspettata renaissance.

Recluso nella lontana Tomi, chi sa, forse Ovidio si era accorto proprio di questa fine, di una fine, in ogni caso, se non altro, della sua. E che cosa c’è di peggio per un poeta che vedersi a poco a poco dimenticare? registrare la scomparsa dei propri libri dalle biblioteche? non incontrare per la strada qualcuno che parli la sua lingua? Si guarda intorno e si accorge che c’era, che c’è un altro mondo. Che a scomparire è solo lui, e forse, almeno lì lontano, la sua Roma che lo aveva rigettato. Si provò a saggiare se nella lingua di questo mondo sconosciuto si poteva scrivere poesia. Tentare di sopravvivere alla scomparsa o quanto meno all’incomprensibilità per molti della propria lingua. Una perdita dolorosissima. Oggi ci si chiede chi sa come fosse la poesia di Ovidio nella lingua dei Geti. Anche se, a quanto sembra, i versi adombravano encomi di Augusto e di Tiberio. Ma si trattava comunque di un encomio in una lingua che non era né il greco né il latino, e nemmeno il persiano. Dell’Ibis, Edward John Kenney, nella Letteratura Latina della Cambridge University, dice che è il suo “canto del cigno”. In contrasto con il giudizio malevolo di altri critici, e in particolare con la secca stroncatura di Concetto Marchesi. Tuttavia, il senso della fine che si coglie nei versi dell’ultima delle Epistole dal Ponto, assume nell’Ibis un carattere funereo, definitivo. Lo sfogo di un umore atrabiliare. Ma nell’Epistola, invece, è sofferto, vissuto, appassionato:

Omnia perdidimus: tantummodo vita relicta est,

Praebeat ut sensum materiamque mali.

Quid iuvat extinctos ferrum demittere in artus?

Non habet in nobis iam nova plaga locum.

Pont. IV, 16, 49-52

Tutto ho perduto: la vita mi è lasciata solo

per alimentare la sofferenza e la materia del male.

A che serve affondare il ferro in membra estinte?

Ormai non c’è spazio, in me, per una nuova piaga. traduzione mia

In questo desolato commiato si può leggere il senso della disperazione che deve avere invaso il poeta per le manovre che miravano, a Roma, a cancellarne perfino la memoria. Si toglievano i suoi libri dalle biblioteche. S’insidiava la fedeltà della moglie. Si sparlava di lui. Chiunque fosse il nemico, se lo stesso Imperatore, o se uno che approfittasse della sua disgrazia per farsi posto nella corte del Potere, l’odio viscerale che la malvagità suscita nell’innocente perseguitato poteva essere espresso e per così dire placato solo dall’architettura onnicomprensiva del mito, sfogato e, infine, liberato, dalla purificazione della poesia: il rito scaramantico del vate agiva come la catarsi nella tragedia, nominandolo, scacciava il male.

E oggi? Quale scamanzia potrà liberarci dal male che si compiace di sé stesso, fomenta guerre, isterilisce, per piaggeria o per inabilità, la mano dei poeti che battono sui tasti del computer stanche, illeggibili filastrocche della propria vacuità? A volte si è tentati di riassumere le imprecazioni mitiche del poeta antico e in altra lingua – l’inglese, che è il latino di oggi? – ripronunciare gli aenigmata mortali che tante vane lacrime facciano affluire nelle acque dello Stige. Exegi monumentum aere perennius? Il coro delle Rane – πετετρέξ κοἀξ κοἀξ – ci sbeffeggia nella palude: pulvis et umbra sumus, più saggiamente, dalla meno lontana Venosa, ci suggerisce un altro poeta, lo stesso del monumentum, che poi così corregge il vanitoso aere nel più realistico pulvis.

Ultima osservazione, in margine: rileggiamoci i versi dell’ultima Epistula ex Ponto. E magari inseriamoli nell’intera elegia, che non è tra le cose migliori del poeta, soffocata da miriadi di nomi, come se l’accumulo di nomi compensasse l’assenza delle persone. È il grido di un solitario che rievoca la folla degli anni giovanili. Il silenzio dell’oggi confrontato con lo strepito di ieri. Da poeta, sentito come furia, accumulo, oppure assenza, privazione, di parole. Nella decima Epistula del secodo libro, dedicata all’amico poeta Aemilius Macer, Emilio Macro, ai versi 35- 42, l’ansia delle parole si fa ossessiva, il ricordo dei colloqui struggente.

Et quota pars haec sunt rerum, quae vidimus ambo,

Te mihi iucundas efficiente vias!

Seu rate caeruleas picta sulcavimus undas,

Esseda nos agile sive tulere rota:

Saepe brevis nobis vicibus via visa loquendi:

Pluraque, si numeres, verba fuere gradu.

Saepe dies sermone minor fuit; inque loquendum

Tarda per aestivos defuit hora dies.

(E quanta parte questa delle cose che vedemmo entrambi,

e tu che mi rendevi gioconde le strade.

Tanto su barca dipinta solcammo le onde cerulee,

quanto prendemmo carri dall’agile ruota:

spesso con brevi scambi ci si apriva la via di parlare:

e ancora di più, se le enumeri, furono le parole del cammino percorso,

spesso il giorno fu più corto dei discorsi: e mentre parlavamo

l’ora tarda fuggiva nelle giornate estive). traduzione mia

Un pefetto epigramma callimacheo. Come gli ultimi versi dell’ultima epistula. Che potremmo ritradurre:

Tutto ho perduto: la vita mi è lasciata solo

per alimentare la sensibilità e la materia del male.

A che serve affondare il ferro in membra estinte?

Ormai non c’è più spazio, in me, per nuove ferite.

Proviamo ad accostarvi i versi di un poeta moderno, Vittorio Sereni. Dagli Strumenti umani, lo stupore, l’annichilimento nella spiaggia ormai deserta.

La spiaggia

Sono andati via tutti –

blaterava la voce dentro il ricevitore.

E poi, saputa: – Non torneranno più -.

                                                                       Ma oggi

su questo tratto di spiaggia mai prima visitato

quelle toppe solari … Segnali

di loro che partiti non erano affatto?

E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.

I morti non è quel che di giorno

in giorno va sprecato, ma quelle

toppe d’inesistenza, calce o cenere

pronte a farsi movimento e luce.

                                                              Non

dubitare, – m’investe della sua firza il mare –

parleranno.

Gli Strumenti Umani, Torino, Einaudi, 1965, pag. 91.

“Le toppe d’inesistenza” ovidiane erano i libri che scomparivano dalle biblioteche pubbliche, gli amici che tradivano e tramavano contro di lui, la lingua che mancava nelle strade di Tomi, le conversazioni dei salotti letterari di Roma. Per chi poteva scrivere ancora gli Amores, per chi l’Ars Amatoria e i Remedia Amoris? per chi l’augurio di vita perenne che conclude le Metamorfosi? Si quid habent veri vatum presagia. Se qualcosa di vero c’è nelle profezie dei poeti. Il rancore in cui cresce la malinconia dell’abbandono, l’odio che nutre la sua solitudine di esiliato. Sulle rive di quel mare estraneo, terra di miti feroci, dove l’immaginazione aveva fatto nascere la sua sventurata Medea, la casa senza risonanze familiari assomigliava al cupo domicilio del Malinteso di Camus. Prefigurata, al posto della fama, solo la soppressione. Il dominio di Roma sul mondo si fondava su un equivoco, di cui Augusto era l’artefice, Ovidio la vittima sacrificale. Il rito di odio tentava, con le parole dell’Ibis, di stornarne l’esito nefasto. Che almeno la sua poesia sopravvivesse alla catastrofe senza catarsi dell’uomo. Fu accontentato. E noi oggi lo leggiamo ancora.

Fiano Romano, 14 luglio 2023

 

- 14/07/2023
TAGS: libri

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