La scommessa di Pascal

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Καὶ νεανίσκος τις συνεκολούθει αὐτῷ περιβεβλημένος σινδόνα ἐπὶ γυμνοῦ, καὶ κρατσιν αὐτόν· ὁ δὲ καταλιπῶν τὴν σινδόνα γυμνὸς ἔφυγεν ἀπ’ αὐτῶν.

Adulescens autem quidam sequebatur eum amicuts sindone super nudo, et tenuerunt eum. At ille reiecta sindone, nudus profugit ab eis.

Un giovanetto però lo seguiva, rivestito soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono. Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo.

Marco, XIV, 51-52. La traduzione italiana è di Massimo Ridolfi

Massimo Ridolfi

Sono versetti misteriosi. Quanto il Padre Nostro citato nel corpo della commedia. E perché l’evangelista Marco abbia sentito il bisogno di tramandare questo particolare dell’episodio della cattura di Gesù non si saprà mai, credo. Ma su questo particolare Massimo Ridolfi ha costruito un intero dramma – lui la chiama commedia -, quasi una sacra rappresentazione o, come direbbero gli spagnoli, un auto sacramental, un Mistery o Morality Play direbbero gli elisabettiani. Impresa da far tremare le vene e i polsi. Va subito sgombrato il terreno dal confronto con autori come Paul Claudel e Diego Fabbri. Se mai lo spirito è più vicino al Vangelo secondo Matteo di Pasolini, ma non stilisticamente, bensì come concezione drammaturgica. L’antico è colto come se accadesse ora, come se la rappresentazione fosse inscenata da un teatrante contemporaneo della vicenda. I fatti accadono senza che se ne dia spiegazione, accadono e basta. Né i personaggi ci tengono a chiarire le motivazioni dei propri gesti. Si potrebbe quasi dire che Ridolfi applica alla rappresentazione evangelica la poetica neorealistica di un De Sica – Ladri di bicilette, Sciuscià – o di un Rossellini – Roma città aperta, La presa del potere da parte di Luigi XIV – ma non certo Visconti – La terra trema – o Giuseppe De Santis – Riso amaro. Se poi si pensa a una fonte letteraria vengono in mente, ma con molti distinguo, Cesare Pavese – La casa in collina, ma anche i Dialoghi con Leucò – o Fenoglio – Il partigiano Johnny, I ventitrè giorni della città di Alba -. Ma molto meglio dimenticare qualsiasi fonte, qualsiasi riferimento, che non siano gli stessi scritti del Nuovo Testamento. I personaggi parlano la lingua di oggi. E ciò restituisce la contemporaneità dello sguardo, come se ciò che accade sulla scena accadesse nello stesso istante in cui è recitato. Ma niente di ciò che tutti sanno, tutti ricordano del Vangelo, accade sotto i nostri occhi. lo veniamo a sapere dalle parole dei personaggi, il Ragazzo, l’Uomo Distinto, il Ragazzo dell’Ombra – l’antagonista, un androgino sui 20 anni, com’è spiegato nell’elenco dei personaggi -, il Cieco, la Donna Avvenente (Maria Maddalena? la sorella di Lazzaro? Non lo sappiamo o forse tutte e due). Ma più che a fonti letterarie o drammaturgiche o cinematografiche ci si avvicina di più a cogliere il senso dell’azione alla quale assistiamo pensando a pittori dell’epoca barocca, soprattutto a due immensi testimoni dell’inquietudine di quel secolo: Caravaggio e Brueghel. La vocazione di Matteo o la Madonna dei pellegrini, o, più ancora, il Calvario del fiammingo, in cui la crocefissione sta sullo sfondo, lontanissima, e in primo piano c’è la vita quotidiana delle Fiandre in cui vive il pittore. Quanti oggi, tra il pubblico italiano, forse il pubblico più retrivo di Europa, si scandolezzano (il preziosismo linguistico è rivolto a loro) e imprecano per i tradimenti, gli stravolgimenti del teatro moderno – come se in qualche epoca il teatro sia mai stato fedele alle storie rappresentate: Sofocle parla di assemblee democratiche tenutesi in epoche mitiche quando governano monarchie assolute, Racine fa parlare con il voi personaggi del mondo antico quando si conosceva solo il tu e Tito si rivolge a Berenice chiamandola Madame, Shakespeare fa sparare cannoni nel secolo XII quando ancora non sono stati inventati, e l’Alessandria di Cleopatra assomiglia alla Londra di Elisabetta – o come se dal medio Evo in poi gli affreschi e i quadri facessero vedere greci e romani rigorosamente abbigliati con abiti antichi invece che con abiti moderni, coevi dell’epoca del dipinto – non vadano a vedere questo Evangelium, non lo leggano, perché o non capiranno niente o diranno che non c’entra niente con il Vangelo. Invece non una sillaba è fuori posto, non una sillaba è spiegabile senza il riferimento alla vita di Cristo com’è raccontata dai Vangeli. Gesù non lo vediamo. Ma è onnipresente. Tutti non parlano che di lui, anche quando parlano di altro. Ma non solo c’è riferimento ai Vangeli. Paolo, nella prima lettera ai Corinzi (XV, 12.20), dice che o Cristo è risorto o non è risorto. Se è risorto è la dimostrazione ch’è Dio, altrimenti la nostra fede è vana. Non un solo personaggio dell’azione è così esplicito, ma tutti vivono come se avessero introiettata l’idea. Siamo perciò tutti in apprensione per il senso di ciò che i personaggi dicono di avere visto e sentito dire. E ciascuno tira le proprie conseguenze, chi appellandosi a un bisogno, un dovere, più che un diritto, una teoria generale dell’uomo, chi aggiustandole alle proprie richieste. Ma non c’è ancora l’opposizione tra chi ha fede e chi no, tra credente e miscredente o addirittura tra chi vuole credere e chi deride ogni fede. Ma la verità, se esiste una verità generale, oggettiva, autonoma, indipendente dall’accadere, o non è la verità legata ogni volta alla situazione in cui accade ciò che accade, la verità prima ancora che si possa affermare l’esistenza di qualcosa, figuriamoci poi se di un dio, è la verità, che ci piaccia o no, che lo vogliamo o no, del linguaggio, di ciò che dico se voglio che l’altro lo intenda per ciò che io voglio dire. Che ci sia accordo che l’acqua è l’acqua e si dice acqua, che il cielo è il cielo e si dice cielo, la terra terra e si dice terra, dio è dio e si dice dio. Non una parola, nemmeno la congiunzione, o la preposizione o l’interiezione, figuriamoci poi il sostantivo, l’attributo o il verbo, può essere altro da ciò che dice. E se io dico che Giovanni ha tuffato Gesù nel fiume, l’ha lavato, devo credere che davvero Gesù sia stato immerso nell’acqua e che l’acqua l’abbia lavato. L’acqua e nessun altro elemento, nemmeno se diventa vino. Che cosa poi questo significhi è un’altra cosa, anzi un altro discorso. E lì, nell’interpretazione, le cose possono cambiare, anzi cambiano anche se le dico con le stesse parole. “Tenta, se credi” . “Ma era guarita”, ribadisce il ragazzo. La donna avvenente lo bacia, lo cosparge di olio profumato, gli ficca la lingua in bocca. Il cieco assiste alla scena senza vedere niente. Un adolescente penserà a torturarlo e farlo fuori. La sacra rappresentazione medievale, la Morality o Mistery che sia, così come poi il teatro elisabettiano che ne deriva o il teatro spagnolo del siglo de oro e l’auto sacramental non chiudono gli occhi agli orrori della vita, non sono il pio palcoscenico sentimentale piccolo borghese, teatro di buoni sentimenti, rappresentazione del trionfo della gente per bene sui reprobi, sui malvagi, la fede non è nascondere le brutture del mondo e illudersi che la bontà di dame benestanti e benpensanti salverà il mondo, ma guardarlo il mondo e affrontarlo così com’è, la salvezza viene dalla conoscenza e non dalle illusioni. E qui, sulla scena, Cristo, che non si vede, si sa che è condotto al Calvario. Per un sacrificio che salverà l’umanità. Ma sulla scena il sacrifico sarà un altro. Perché sempre altro il senso delle cose da ciò che vediamo o che crediamo di vedere. Questo ci fa vedere il teatro di Ridolfi: che non vediamo ciò che dovremmo vedere. O meglio: che ciò che vediamo non è tutto ciò che dovremmo vedere. La Chiesa? Per prima non lo vede più. Ha perso la strada sulla quale si era incamminata agli inizi. Quasi come i catari Ridolfi pensa che il messaggio evangelico travalica le istituzioni, si rivolge agli esclusi, agli scartati. Appunto come nella Vocazione di Matteo, nella Madonna dei pellegrini, nel paesaggio popolato di figure quotidiane, lacere, ridenti, affamate, e in fondo una collina con tre croci. Le parole dicono ciò che dicono. Ma, sempre, anche altro da ciò che dicono. “Ha pianto sul corpo di mio fratello” dice la Donna Avvenente: “Le sue lacrime mi hanno ridato mio fratello”. “Ma quello che è successo accade ogni giorno”, dice l’Adolescente, uscendo da sotto le gonne della Donna Avvenente: “Lontanissimo dalle nostre preghiere. Vicinissimo ai nostri sentimenti. Ce lo abbiamo scritto negli occhi. È un’accusa che parte dagli occhi. Avviene ogni volta che guardiamo qualcosa che non ci assomiglia”. Inutilmente il Ragazzo grida: “Ma io non gli ho creduto!”

Che cosa deve dire chi assiste? che cosa, il pubblico pensare di ciò che ha udito e visto? Convertirsi? a che cosa? e può farlo? Basterà una rappresentazione? Non è questo il compito del teatro. I personaggi hanno parlato, detto ciò che provano, ciò che pensano. Non vogliono convincere nessuno, nemmeno sé stessi. La risposta non sta sulla scena, ma nella reazione di ciascuno alle loro parole, alle loro azioni. Il sesso è una realtà che c’è e non è ne buono né cattivo, chiamiamo depravato ciò che non ci piace, ma che piace a qualcuno che non siamo noi. E chi siamo noi per giudicare? Non giudicare e non sarai giudicato, dice Gesù. Come c’è l’assassinio, la cattiveria, l’egoismo, il sadismo, il masochismo. La verità non è data una volta per tutte, ma va inventata volta per volta, e solo per quella volta. Crederci? Non dipende da nessuno. Se verità sembra volerci suggerire Ridolfi con questa sacra rappresentazione del terzo millennio è che la verità dobbiamo cercarcela ciascuno volta per volta, senza impalcarci a giudici degli altri, a credere di avere il diritto di dire ciò che devono fare, a supporre di doverlo dire e d’imporlo. La fede non s’impone. O arriva o non arriva. È una grazia, dice il teologo. È una ricerca dice il laico. Chi sa, può darsi tutt’e due le cose. E va comunque detto con l’asciuttezza, la pertinenza con cui Ridolfi lo fa dire ai suoi personaggi. Ma in ogni caso nessuno può instillarla all’altro. Ricordiamoci delle parole del poeta:

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

(Salvatore Quasimodo)

EVANGELIUM. Teatro. ad te suspirámus geméntes et flentes in hac lacrimárum valle. Massimo Ridolfi. Letterature indipendenti, 2020. Amazon KDP. Copertina rigida € 19,00. Copertina flessibile € 13. Formato Kindle € 9,99.

In margine: le parole del Salve, Regina circoscrivono il paesaggio dell’azione, che comunque cambino i luoghi, è sempre lo stesso: una valle di lacrime, il luogo del dolore. I greci lo avevano capito più di chiunque altri. L’uomo è il sogno di un’ombra, canta Pindaro. Sofocle, il quale pure aveva vissuto una vita felice, piena di ricchezza, di amori e di gloria, nell’ultima sua tragedia, Edipo a Colono, scritta quando è ormai più che ottantenne, dice che la cosa migliore, nella vita, una volta che si è nati, è morire giovani o, meglio ancora, non essere mai nati. Il Ragazzo, nella battuta che chiude la “commedia”, “Ma io non gli ho creduto!”, sembra riecheggiarlo. Tutti i personaggi escono di scena. Resta sul palcoscenico, il cadavere del Cieco, davanti al quale tutti erano sfilati senza degnarlo di uno sguardo. Nel libro in cui è stampata la commedia, e che fa parte di una collana intitolata Nei luoghi di Godot, e il nome sottinteso di Beckett la dice lunga sul senso di questo teatro, in cui ogni gesto, ogni parola è parola, gesto di un’altra parola, di un altro gesto, una lunga intervista spiega l’occasione che ha spinto Ridolfi a immaginarla e a scriverla. Ma poiché Letterature Indipendenti è un’invenzione dello stesso Massimo Ridolfi, il dialogo tra L.I. e M.R. più che uno sdoppiamento (anche!) è un’altra messa in scena, un’invenzione teatrale, o un discorso letterario sul proprio teatro, quasi un vero e proprio metadiscorso, alla maniera di come sono una sorta di metacritica i giudizi che Vittorio Alfieri pospone in calce ai volumi delle sue tragedie. In entrambi i casi ne esce una stimolante discussione su che cosa sia il teatro, e che cosa nel suo tempo il teatro del suo tempo, e come ci si debba confrontare con i problemi drammaturgici e ideali, nel senso di idee, di pensiero, da parte dello spettatore, ma anche del lettore. Non un rigo – sembra avvertirci Ridolfi – è scritto per caso, né per caso l’attore lo dice sulla scena. Ma il senso di ciò che si deve accogliere dalla lettura del testo o dall’ascolto e visione dello spettacolo nascerà solo, e sempre, dalle emozioni, idee, esperienze di lettura e di ascolto che via via sperimenterà il lettore o lo spettatore. Perché nessuno slogan, nessun manifesto o proposito ideologico è suggerito dalla scrittura o propagandato dalla voce degli attori. Il senso ultimo sono le parole stesse. Ma esplosive come una bomba a orologeria. Se le si lasciano esplodere dentro sé stessi. Ma per concludere: Pascal sostiene che il patto con Dio, crederci o no, è regolato dal calcolo delle probabilità. Se non c’è, non perdi niente a vivere come vuoi. Ma se c’è, perdi tutto. A ciascuno, la scelta. C’è però un’altra versione o, se mai, una scappatoia. ce la indica proprio Godot, che all’appuntamento, in nessuna serata, in nessuno spettacolo, verrà mai. Ma è proprio per questo che lo si aspetta, si continua ad aspettarlo. Sia Dio, sia la Morte – Thanatos, l’antagonista di Eros, il dio bifronte che beatifica e che uccide: uno a quel punto ci arriva sempre. E allora, o è il Silenzio, prima che ci fosse un mondo. O la Musica dalla quale tutti vorremmo essere sopraffatti. Massimo Ridolfi ci prova con la musica delle parole, e l’armonia disarmonica – o, se preferite, la disarmonia armonica – del gesto. Non costa niente ascoltarla, niente seguirlo. Ma quel niente è l’effetto di una fatica, di un lavoro, d’invenzione, di scrittura, che a metterli in atto, richiedono una vita.

L’immagine di copertina è di Fiorella Sampaolo. 1019.

- 16/03/2024
TAGS: teatro

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