“Blade Runner 2049”: indizi e frammenti di ricordi su una possibile umanità

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Nel 2049 i replicanti fanno parte della società, in quanto utili come manovalanza per le colture sintetiche. Ma, nonostante ciò, l’agente dell’LAPD K (Ryan Gosling), un replicante di ultima generazione, ha l’incarico di arrestare o eliminare gli ultimi replicanti ribelli di tipo Nexus. A seguito di una di queste eliminazioni, K rinviene un baule militare sepolto. Al suo interno vi è uno scheletro che, dopo attente analisi forensi, si rivela essere quello di un replicante donna. A sconvolgere le indagini è la scoperta, attraverso alcuni test, che il replicante deceduto ha partorito con un cesareo, cosa in teoria impossibile in quanto i Nexus non sono capaci di riprodursi. Non convinto dal prosieguo delle indagini e sempre più sconcertato dal fatto che il bambino nato dalla replicante forse è ancora in vita, K si reca presso la sede della Wallace Industries con lo scopo di ottenere ulteriori informazioni. Ma ben presto l’agente si rende conto delle oscure macchinazioni dietro il ritrovamento e, senza più alleati, deve confidare nell’aiuto di una sola persona: l’ex blade runner Rick Deckard (Harrison Ford), l’unico in grado di dargli tutte le risposte che cerca.

Riprendere in mano i fili di un cult assoluto degli anni Ottanta, ovvero quel Blade Runner con cui Ridley Scott nel 1982 ha, in parte, (ri)scritto le coordinate della sci-fi distopica dalle forti influenze noir, non è un’impresa di certo facile. Tra maledizione del sequel e incognite sulla capacità di (ri)creare quelle atmosfere pure Eighties basate su un certo estetismo visivo/cinematografico, Denis Villeneuve, regista di opere monumentali come Enemy e Prisoners ha accettato la sfida portando sul grande schermo, a distanza di trentacinque anni dall’uscita nelle sale del film di Scott, il suo Atto II ufficiale:Blade Runner 2049 (id., 2017). Sequel tanto atteso quanto (in parte) bistrattato, Blade Runner 2049 si rivela essere un’opera fondamentale per avere qualche risposta a tutti quegli interrogativi lasciati in sospeso tre decadi e mezzo fa. Villeneuve, che solo un anno fa si è cimentato con le prove generali dirigendo il fantascientifico Arrival, dà vita alla sceneggiatura di Hampton Fancher e Michael Green creando un prodotto che non passa inosservato. Spostando l’azione trent’anni dopo i fatti narrati in Blade Runner e avvalendosi di una galleria di nuovi (e vecchi) personaggi, Villeneuve opta per un procedimento inverso: se il primo film procede verso un finale da interpretare, con quel cliffangher basato sul dubbio se Deckard sia o no un replicante, in Blade Runner 2049 il nuovo agente di polizia/cacciatore di replicanti si svela essere, fin da subito, quello che è ovvero un replicante che dà la caccia ai suoi simili ribelli.

In questo Blade Runner 2049 è un’opera filmica che procede sul filo dell’ambiguità, disseminando indizi e frammenti di ricordi su una possibile umanità (forse) vissuta e messa (in)volontariamente da parte, per poter obbedire solo ed esclusivamente agli ordini di una gerarchia corrotta e deviata, tralasciando la possibilità di altre verità nascoste (e difese) dalla società ibrida della Los Angeles del futuro. Lentamente e senza bruschi sbalzi di regia, Villeneuve trasmuta l’agente K in personaggio chiave per comprendere in toto il contenuto narrativo di Blade Runner 2049. Tra flashback e timeline lineare l’opera del regista canadese procede per addizione, portando a sé tutti i tasselli necessari e possibili per comporre il puzzle di indizi utile per poter arrivare alla risoluzione dell’intreccio narrativo. Tra tempi dilatati e lenti e accelerazioni di ritmo lo sguardo del regista viene a sovrapporsi con quello del personaggio interpretato – con carisma e verve attoriale – dal sempre bravo Ryan Gosling e, infine, con lo sguardo dello spettatore stesso dando vita a una triangolazione giocata sulvedere/guardareleitmotiv questo già presente nel suo predecessore e qui, giustamente, ampliato.

Blade Runner 2049 si incastra alla perfezione nella filmografia (sempre attenta ai dettagli e a quel rapporto fondamentale divisione/sguardo su cui il cinema stesso si basa) di Denis Villeneuve il quale, con maestria e solidità registica, dirige unsequel che – senza dubbio alcuno – non sfigura di fianco al suo prototipo. Le capacità del regista fanno sì che questo nuovo capitolo dimostri di essere, in tutto il suo splendore, una mirabilis per gli occhi: il touch villeneuviano c’è e si vede ed è proprio questo aspetto a creare l’estetica personale che permea Blade Runner 2049, fatta di un certo spessore onirico in cui le ambientazioni urbane al neon e claustrofobiche, umide, bagnate dalla pioggia o imbiancate dalla neve e dominate dagli ologrammi pubblicitari si mescolano alle location dal sapore più “marziano” e post apocalittico à la George Miller, in cui si alternano scorci surreali, giochi di colori, luci e ombre e scoppi di brutale e realistica violenza. Caratteristiche, queste, che tuttavia si rivelano non essere superiori a quella fascinosa estetica rétro del film originale ma, parimenti, non sono neanche inferiori in quanto hanno il loro personale motivo di esistere.

Certo, Blade Runner 2049 non è un capolavoro e, nonostante tutti i pro a suo favore, il nono film di Villeneuve manca di una certa epicità di altri tempi, peccando un po’ nei dialoghi e in qualche difetto: messo da parte quell’impianto di stampo filosofico ed esistenzialista posto al centro di Blade Runner, in questo secondo episodio si lascia molto più spazio ai concetti di bioetica ed evoluzione della specie. Niente monologhi epocali, quindi, alla Roy Batty/Rutger Hauer bensì più spiegazioni (e risposte) scientifiche e fantascientifiche destinate a confluire in un finale onirico e drammatico quanto in parte (e ancora una volta) lasciato aperto. Ciononostante Blade Runner 2049 si conferma un ottimo sequel di alta caratura, un prodotto Off Hollywood lontano dall’entertainment blockbuster ma molto più vicino a quell’aura di fantascienza d’autore e – soprattutto – opera immancabile per (ri)vivere e comprendere nuovamente il conflitto tra umanità e inumanità.

 

di Francesco Grano

- 30/11/2017

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