L’autocoscienza del vampiro

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La notte del 16 giugno 1816, mentre fuori infuriava una bufera di vento e di pioggia, nella villa Diodati, sul lago di Ginevra ,cinque giovani inglesi inventarono personaggi che ancora terrorizzano e commuovono noi sedicenti moderni. I giovani erano George Byron e il suo amico e amante John Polidori, e lo strano terzetto di Percy Bysshe Shelley con la dicianovenne Mary Wollnstonecraft, figlia di William Godwin, contrario alla sua relazione con il poeta, e la sorellastra Claire Clairmont, a sua volta amante anche lei di lord Byron al quale darà una figlia. I tre, inoltre, intrattengono una promiscua relazione molto intima tra di loro tutti e tre. È proprio Claire a mettere in contatto gli Shelley con Byron. Byron propone al gruppo d’inventare e scrivere ciascuno una storia gotica. Mary Wollnstonecraft, poi divenuta Shelley, inventa il personaggio del mostro risuscitato dallo scienziato Viktor Frankenstein, dando vita a un cadavere. Dunque – contrariamente a quanto spesso si sente dire e si legge – Frankenstein non è il mostro, ma il costruttore del mostro. Polidori immagina la figura del vampiro, al quale poi Bram Stoker, verso la fine del secolo, darà forma definitiva nel suo romanzo Dracula. Byron non inventa nulla. Ma di quella notte c’è, forse, un’eco nel Manfred. In nuce, comunque, riguardo alla figura del vampiro, c’è già tutto nel racconto di Polidori, il quale fece una brutta fine, suicida a 26 anni, può darsi perché abbandonato da Byron, che in ogni caso, assuntolo come segretario, esercitava su di lui un dominio, sessuale e morale, sadico e perverso: probabile, anzi, che sia proprio Byron, con il suo esasperato egocentrismo, il suo egoismo cinico, a fornire il modello per la figura del vampiro.

Questo Principe nato dal buio, dunque, immaginato e scritto, in forma di monologo, da Gianluca Paradiso, andato in scena a Padona il 1 settembre 2022 e venerdì 17 febbraio scorso a Roma, nel Teatro dei Contrari, nasce veramente dal buio, dalla notte. La notte di cinque giovani inglesi trasgressivi e anticonformisti, alle origini della modernità. Ma la letteratura, la drammaturgia, la filmografia sul vampiro è sterminata. Perfino la sua versione parodistica, comica, nel bellissimo film di Polanski Per favore, non mordermi sul collo, del 1967 (titolo originale, assai più originale e significativo: Dance of the Vampires. poi sostituito dalla distribuzione americana con The Fearless Vampire Killers or Pardon Me, But Your Teeth are in my Neck, il titolo italiano ne riecheggia la facile ironia). Ma nel novecento il cinema vede almeno due grandi capolavori, entrambi assai cupi: Nosferatu, di Murnau, nel 1922 e, dieci anni dopo, Il vampiro di Dreyer. Gli anni erano davvero cupi. E sia Murnau sia Dreyer ne riflettono la minacciosa cupezza. Chi è il vampiro, però, per Paradiso? Uno che, più che di sangue ha sete di amore, e più che di amore, di un rapporto di reciproca corrispondenza emotiva, senza mai trovarlo o, meglio, senza avere il potere di ricambiarlo. “Voi vivete nella vita, ma non la vedete. Io vivo fuori della vita, e la vedo”, dice a un certo punto, e sembra quasi un manifesto, o una dichiarazione d’impotenza: “il mio sesso è un muscolo inutile” dice più avanti. Come a dire che la sua condanna è di essere uno spettatore della vita. Gli uomini, i viventi, la vivono, ma non sanno che cosa sia. Ma lui che lo sa, non ne è più attratto, non dà peso a niente di ciò che esiste, ne alla vita che non ha, né alla simulazione di eternità che non gli serve, che anzi gli sottrae ciò che desidera, acquietare la sete, non di vita, ma di rapporto con i viventi: “Non ho dato mai valore a niente, nemmeno a me stesso”, dice a un certo punto, ed è una sorta di autoritratto. In margine: che strano accostamento, si pensa, leggendo la locandina, associare al nome dell’attore e inventore del monologo, e dunque del personaggio, Gianluca Paradiso, la figura dell’infernale vampiro. Un angelo, un diavolo, ciò che vorrebbe essere e non è. Perché l’unico appagamento è succhiare il sangue, uccidere. Illudersi di assimilare la creatura vampirizzata, ma ritrovarsene tra le braccia o il cadavere o la replica di sé stesso, di chi morde, un altro vampiro. Corroso il cuore che ormai non batte, e non batterà mai più, da una sete insaziata di succhiare amore, si trova invece a bere solo sangue, e togliere la vita a chi anelava di dargliela ma per goderne insieme.

È dal resto da una folgorazione amorosa che nasce la metamorfosi del giovane seducente e sedotto innamorato nel non vivente eterno seduttore assassino. Una perfetta solitudine è la sua non vita. La natura, può darsi, però, anche di ogni amore. Di cui il vampiro è l’immagine negativa, al di là dello schermo, ciò che resta dell’amore dopo il godimento, dopo l’abbandono, dopo la morte. Da quella solitudine che brama spasmodicamente la congiunzione dell’amato, nasce, infatti, la metamorfosi dell’innamorato nel perennemente deluso d’amore. È l’inizio della storia. E Paradiso la racconta insinuandoci nelle vene il veleno di un brivido erotico che è in realtà attrazione della morte. Paradiso è un giovane attore bellissimo, ma qui la sua bellezza, sfigurata dalle ombre nere del trucco, e resa perciò perfino più seducente, per questo monologo del vampiro, che è in realtà un monologo sulla seduzione, questa avvenenza è un invito alla dannazione, da vampiro, il bellissimo giovane innamorato appare ancora più seducente, le labbra “erettili” del vampiro che l’ha dannato sono ora le sue, e anche quando colano il sangue della vittima sedotta e succhiata si fa ancora più attraente, diabolicamente, infernalmente attraente. L’amore uccide sempre chi si ama, scrive Oscar Wilde. ma ciò che qui sconvolge è che l’amato vuole essere ucciso. E l’assassino, il vampiro, nell’atto di ucciderlo, si accorge di perpetuare la propria morte, la propria non vita, la propria solitudine. Dunque, sta proprio all’inizio del racconto, la colpa, o la scelta o, magari, la grazia di quell’estasi che condanna in eterno alla solitudine. Il giovane innamorato sente, tutto a un tratto, che il dio, l’angelo bellissimo, dalle “labbra erettili”, di cui voleva sentire il bacio sulle proprie, è in realtà una bestia, una belva feroce che quando lo morde gli fa provare nello stesso istante il dolore insopportabile di una trafittura e l’estasi irripetibile di un orgasmo sublime, mai provato prima. Come se la morte fosse l’atto supremo del piacere. E qui l’attore Paradiso si fa davvero il giovane innamorato che morso dal vampiro muore a sé stesso, muore alla vita, per ridestarsi, rinascere nella non vita dell’isolato, del principe delle tenebre, dell’angelo bellissimo dannato dalla sua stessa bellezza. Dalla bocca aperta, invitante, del giovane, ma non si sa a chi, all’invisibile seduttore che succhia, al vuoto, al nulla, al pubblico che guarda rabbrividendo, dalla bocca sgomenta di Paradiso esce un urlo belluino, spaventoso, che piano piano si trasforma nel gemito di un orgasmo. È il momento più misterioso e insieme chiarificatore dello spettacolo. Vita e morte coincidono. Piacere e dolore. Trafiggere ed essere trafitti. Soffrire e godere. Morire e vivere, anzi no, rinascere. In altri momenti l’attore-vampiro cerca la complicità del pubblico. Si accosta agli spettatori, sussurra parole alle orecchie dell’uno e dell’altro. Vi credete estranei, sembra chiedere, ma no: siamo tutti coinvolti, tutti trascinati nella stessa avventura di lasciarci sedurre da chi possedendoci ci uccide, tu non lo sai, ma tu mi cerchi. A meno di non replicare la seduzione. Ed essere tutti coinvolti, insieme, nel ciclo della rinascite. Che per l’induismo è una dannazione, dalla quale non si desidera che uscire, per fermare la ripetizione delle rinascite.

Non so se tutto questo c’è nel monologo di Paradiso. Certo, però, ascoltandolo, ci sembra di sentircelo suggerire. E quando lo si vede, fasciato nell’abito nero attillato, accasciarsi sulla poltrona, disperato, anelante l’amore impossibile, viene voglia di salire sulla scena e dirgli, l’amore che cerchi eccolo qua, lo vedi? è questo pubblico che hai sedotto e che ti applaude. Sembra dirglielo anche la bravissima Ilaria Tomassini, amante incorrisposta, vittima vampirizzata, felicemente vampirizzata, che non sarà, nemmeno lei, mai amata da chi ama. E resta silenziosa per tutto lo spettacolo. La regia di Alessandro Bertolotti, che si avvale della collaborazione di Recitando, scuola di teatro e cinema di Padova, limita al minimo le figurazioni sceniche, bastano, numerose, le lampade, le candele. Una poltrona. E abiti che avvolgono il corpo, nascondendolo sono di Caterina Riccomini. Ma quando l’attore si libera del mantello, il corpo agile, sinuoso, moltiplica la seduzione che ci aveva invitati della bocca. E via via che dura il discorso, quasi sempre a mezza voce – bello questo tenersi sul piano del colloquio, della conversazione -, si fa evidente che la seduzione sta nelle parole, nel ritmo delle parole: una maschera, uno specchio, o una difesa per non denudare il corpo dell’altra, più vera seduzione che si sa irrisolta: quella d’incontrare l’altro che ci completerebbe, ma che non sia illusione il completamento. E invece perfino la seduzione non è che un’illusione: si abbraccia l’ombra, credendo di abbracciare un corpo, e tra le braccia non si stringe che l’aria. Come Ulisse la madre, Enea il padre. E noi tutti l’ombra dei nostri desideri.

In margine. Ma che teatro è questo che non è teatro, ma usa il teatro per la confessione di un inesistente figura dei nostri incubi, una figura che è ciò che di noi stessi non vogliamo vedere? A parte il breve racconto di come il giovane innamorato di un vampiro diventa a sua volta vampiro, non c’è azione. E tuttavia ogni parola è azione, perché ogni parola recupera in chi l’ascolta la memoria della propria storia. Se non proprio un vampiro, chi non ha incontrato nella vita un seduttore che lo abbia demolito, distrutto, o lui stesso non sia stato il seduttore che demolisce e distrugge? Il monologo ci riporta all’azione della parola, alla parola che parlando agisce e si fa strumento di una nuova autoconsapevolezza. Catarsi, la chiama Aristotele. Riconoscimento di sé, direi oggi. Pasolini lo aveva capito decenni fa che il teatro oggi ha bisogno di questo. Della parola che stabilisca, costruisca una nuova consapevolezza dell’individuo, lo rimodelli come cittadino di una comunità. Che comincia, appunto, nel teatro. Ma teatro come luogo della parola. O, più esattamente, della parola che si fa azione per la sua stessa forza di costruire una coscienza. Non la chiacchiera. Non il pettegolezzo. Non il fattaccio, l’episodio alla moda, la nota di costume. Ma la parola che parla. E che il suo parlare percepiamo immediatamente come teatro, lo spazio comune della nostra consapevolezza di spettatori che come l’attore sulla scena siamo i cittadini di una stessa comunità. La parola, il linguaggio. La differenza specifica dell’homo sapiens. Che ci distingue dagli altri animali. Il teatro è il luogo perfetto in cui la parola, il linguaggio, trova il proprio spazio. Non dovremmo mai dimenticarlo.

ROMA, TEATRO DEI CONTRARI

Il principe nato dal buio di Gianluca Paradiso

Con Gianluca Paradiso e Ilaria Tommassini

Regia di Alessandro Bertolotti

- 19/02/2023
TAGS: teatro

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