“Sully”: il ritratto di un fragile eroe dell’aria

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Il 15 gennaio 2009, il volo 1549 dell’US Airways è costretto, causa perdita dei motori, a un ammaraggio di emergenza sulle acque del fiume newyorkese Hundson. A prendere l’istintiva e ardua decisione è il comandante del volo Chesley “Sully” Sullenberger (Tom Hanks) il quale, insieme al secondo ufficiale Jeff Skiles (Aaron Eckhart), riesce miracolosamente ad effettuare la manovra e portare in salvo i 155 passeggeri imbarcati sull’aereo. Acclamato dal popolo come un eroe, Sully si trova ben presto in un vortice di emozioni e tensioni, causate dal forte stress dell’accaduto e dalle pressioni della commissione dell’aviazione nominata per effettuare approfondite indagini, volte a capire se l’ammaraggio è stata l’unica scelta possibile.

A distanza di quasi due anni dall’uscita del controverso war movie biografico American Sniper (id., 2014), Clint Eastwood porta sul grande schermo, ancora una volta, un altro capitolo della cronistoria a stelle e strisce. Questa volta l’attore e regista californiano ha deciso di raccontare i fatti del cosiddetto “Miracolo sull’Hudson”, avvenuto in una fredda mattina d’inverno, tramite il biopic drama Sully (id., 2016). Basato sull’autobiografia Highest Duty: My Search for What Really Matters di Chesley Sullenberger, Sully è un’accurata e introspettiva ricostruzione non solo ed esclusivamente concentrata sull’incidente aereo ma – piuttosto – volta a offrire il ritratto di un fragile eroe dell’aria. Affidandosi alle capacità attoriali del veterano Tom Hanks (affiancato dall’asciutto e molto convincente Aaron Eckhart) che, in questa pellicola, supera la sua stessa intensità interpretativa già dimostrata in grandi pellicole come Philadelphia, Forrest Gump e Salvate il soldato Ryan, Eastwood fa di nuovo centro, confezionando un’opera dal respiro epico ma – al tempo stesso – altamente drammatica, in cui i manierismi classici e le atmosfere da film di altri tempi rappresentano la linfa vitale alla base di Sully.

Fortemente connotato e giocato sulla sensibilità del fattore umano, Sully è un film che non cerca di dimostrare l’eroismo degli americani bensì, come succede in American Sniper, gli effetti collaterali che ne conseguono quando si sopravvive ad un evento imprevisto a cui, neanche quarant’anni di volo, ti preparano. In questo senso Sully condivide in parte lo stesso background di American Sniper, ovvero quello del reduce (che sia un combattente di professione o in questo caso un pilota civile) da eventi altamente stressanti e traumatici (la cosiddetta sindrome da stress post traumatico). Se nel biopic del più letale cecchino della storia americana Eastwood mette sotto la lente le difficoltà di reinserirsi nel contesto di una vita sociale, lontana dai campi di battaglia e dagli scontri a fuoco, in Sully, invece, quello che si vede è la riuscita di un qualcosa ai limiti dell’impossibile che, nonostante la migliore delle conclusioni, segna profondamente l’animo e la psiche umana.

Il Chesley Sullenberger interpretato da Tom Hanks è molto simile, psicologicamente parlando, al Chris Kyle di Bradley Cooper. Entrambi cercano di metabolizzare, di assimilare e rendersi coscienti di ciò che hanno fatto, dell’incredibile fardello di notorietà (in)diretta che grava sulle loro spalle: il primo per aver salvato la vita di oltre 150 persone in un’America ancora segnata e agitata dallo spettro degli attentati dell’undici settembre, il secondo per aver servito il proprio Paese totalizzando il più alto numero di uccisioni e, parimenti, di aver salvato la vita a numerosi commilitoni. Ed è proprio il fervido ricordo degli attacchi al World Trade Center, vivo e vibrante nella New York che fa da sfondo alle vicende, che rende Sully una pellicola altamente emotiva la quale, diversamente dalle accuse di propaganda e retorica mosse negli ultimi anni all’Eastwood regista, mette in luce senza stucchevolezza o patetismi melensi il lato umano e altruista degli Stati Uniti, fatto di soccorritori specializzati, volontari, poliziotti, paramedici e semplici traghettatori pronti al tutto per tutto pur di trarre in salvo preziose vite umane. Un lato, questo della macchina dei soccorsi che, tuttavia, si scontra con quel classico e immancabile schieramento fatto di detrattori e accusatori (in primis i media a cui seguono i colletti bianchi dei sindacati).

L’epicità dell’ultimo film del buon caro e vecchio Clint risiede in questo: scevro da aspetti politici e propagandistici, Sully mette in scena la spaccatura tra riconoscenza e ingratitudine, tra merito e accusa, quest’ultima ancora di più fomentata da coloro i quali si affidano a calcoli elettronici e simulazioni virtuali, senza tener conto che, nella realtà, l’imprevedibilità e la potenzialità di eventi altamente catastrofici non si gioca secondo le istruzioni di un manuale o con la calma di un volo simulato, bensì reagendo a sangue freddo con tutta la razionalità e umanità possibili. Privo di qualsivoglia aspetto spettacolarizzante e autoreferenziale, Sully è una di quelle opere cinematografiche che lasciano il segno ricostruendo un altro recente atto di puro e semplice eroismo. Un film, quindi, che non lascia impassibili, arricchendo l’animo cinefilo di forti e vibranti emozioni grazie a una regia forte e sicura di sé. Una regia forte come lo stesso Clint Eastwood, uno dei pochi autori manieristi e classici che, insieme a Michael Mann e Kathryn Bigelow, riesce (ancora) a fare emozionare e commuovere.

- 11/12/2017

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