Manoscritto trovato in una bottiglia – Racconto di Edgar Allan Poe

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MANOSCRITTO TROVATO IN UNA BOTTIGLIA

Racconto di Edgar Allan Poe

1833

Qui n’a plus qu’un moment à vivre

N’a plus rien à dissimuler.

Quinault, Atys

Del mio paese, della mia famiglia ho ben poco da dire. Soprusi e l’accumularsi degli anni mi hanno allontanato dall’uno e straniato dall’altra. La ricchezza ereditata mi consenti di beneficiare di un’istruzione d’ordine non comune, e uno spirito contemplativo mi i mise in grado di classificare metodicamente il copioso materiale che i miei studi precoci avevano diligentemente accumulato. Sopra ogni altra cosa, mi dilettavano le opere dei filosofi tedeschi: non per sconsiderata ammirazione della loro follia eloquente, ma per la facilità con cui l’abituale rigore del mio intelletto mi consentiva di scoprirne le falsità. Mi si è spesso rimproverata l’aridità dell’ingegno, e imputata a delitto la deficienza d’immaginazione; e in ogni circostanza il pirronismo delle mie opinioni mi ha reso ambiguamente famoso. E in verità il vivo interesse per le scienze fisiche mi ha, temo, contagiato la mente d’un errore assai comune nell’epoca presente: intendo l’abitudine di rapportare i fatti, anche i meno suscettibili a tale rapporto, ai principi di quella scienza. In complesso, nessuno potrebbe essere meno incline di me a lasciarsi sviare dagli ignes fatui della superstizione così sfuggendo ai severi recessi del vero. Ho ritenuto opportuno fare questa premessa nel timore che il racconto incredibile che mi accingo a narrare sia considerato delirio di un’immaginazione incolta piuttosto che l’esperienza reale di una mente per cui sogni e fantasticherie sono stati sempre lettera morta, cose vuote di senso.

Dopo molti anni trascorsi viaggiando in terre lontane, nell’anno 18… salpai dal porto di Batavia, nella ricca e popolosa isola di Giava, diretto all’arcipelago della Sonda. Viaggiavo come passeggero, da null’altro indotto che da una sorta di nervosa inquietudine che come un demone mi torturava.

Era una bella nave, la nostra: circa quattrocento tonnellate, con rinforzi di rame, costruita a Bombay in legno di teak del Malabar. Portava un carico di cotone e olio delle Laccadive. A bordo avevamo anche copra, zucchero di palma, burro di bufala indiana, noci di cocco, e alcune casse d’oppio. Lo stivaggio era malamente distribuito, e di conseguenza la nave non teneva bene il mare.

Salpammo con una bava di vento e per molti giorni ci tenemmo lungo la costa orientale di Giava senza che nulla occorresse a ingannare la monotonia della nostra rotta tranne qualche raro incontro con le giunche dell’arcipelago al quale eravamo diretti.

Una sera – stavo appoggiato al coronamento di poppa – notai, verso nord-ovest, una singolarissima nube isolata. Singolarissima e per il colore e per il fatto che era la prima che incontravamo da quando eravamo salpati da Batavia. La osservai attentamente fino al tramonto, quando d’un tratto dilagò verso oriente e verso occidente, cingendo l’orizzonte d’una sottile striscia di vapore, simile alla lunga linea di una spiaggia piatta. Subito dopo, attrassero la mia attenzione il color rosso cupo della luna e l’aspetto dal mare, così strano: poiché il mare andava rapidamente mutandosi, e l’acqua sembrava più trasparente del consueto. Sebbene potessi scorgere chiaramente il fondale, quando calai lo scandaglio constatai che l’acqua era profonda quindici tese. L’aria si era fatta intollerabilmente calda ed era carica di esalazioni a spirale, simili a quelle che si levano dal ferro arroventato. Come scese la notte, cessò ogni fiato di vento: impossibile immaginare una bonaccia più completa. La fiamma di una candela ardeva a poppa senza alcun moto percettibile, e un lungo capello, tenuto stretto fra due dita, pendeva senza che si potesse scorgere la benché minima vibrazione. Tuttavia, poiché il capitano diceva di non vedere alcun segno di pericolo e la deriva ci spingeva verso la spiaggia, egli ordinò di ammainare le vele e di gettare l’ancora. Non furono disposti turni di guardia, e i membri dell’equipaggio, quasi tutti malesi, si sdraiarono tranquillamente sulla tolda. Scesi sottocoperta, non senza sinistri presentimenti: tutto, a dire il vero, mi faceva temere un simun. Parlai delle mie apprensioni al capitano, ma egli non badò a quanto dicevo e si allontanò senza degnarmi di una risposta. L’inquietudine mi impedì tuttavia di dormire, e verso mezzanotte salii sul ponte. Come posi piede sull’ultimo gradino della scala di boccaporto, trasalii a un forte ronzio non diverso da quello prodotto dal rapido moto circolare di una ruota da mulino, e prima di poterne accertare la causa, sentii che tutta la nave, fino al suo stesso centro, era scossa come da un fremito. Un istante dopo una valanga di spuma l’inclinò sul fianco e, investendoci da prora a poppa, spazzò tutto quanto il ponte.

L’estrema furia della raffica finì per essere, in gran parte, la salvezza della nave. Sebbene completamente invasa dall’acqua, poiché gli alberi erano andati perduti, dopo un minuto si levò pesantemente dal mare, barcollò per qualche tempo sotto l’immane pressione della tempesta, e infine si raddrizzò.

Per quale miracolo sfuggissi alla morte, non saprei dire. Stordito dall’urto della massa d’acqua, quando rinvenni mi trovai incuneato fra il dritto di poppa e il timone. Con grande difficoltà mi rimisi in piedi e, guardandomi intorno in preda alla vertigine, fui sulle prime atterrito all’idea che ci trovassimo tra i frangenti; tanto era tremendo, al di là di ogni immaginazione, il vortice di montagne spumeggianti, l’oceano che ci inghiottiva. Dopo un po’ udii la voce di un vecchio svedese che si era imbarcato con noi giusto prima che salpassimo. Lo chiamai, gridando con tutte le mie forze, e subito, barcollando, venne a raggiungermi a poppa. Scoprimmo ben presto di essere i soli superstiti del sinistro. Tranne noi due, tutti, sul ponte, erano stati spazzati via; il capitano e i secondi dovevano essere morti nel sonno, poiché le cabine erano completamente allagate. Senza nessuno che ci desse una mano, non potevamo sperare di fare gran che per la salvezza della nave, e i nostri sforzi furono dapprima paralizzati dalla convinzione che, da un momento all’altro, saremmo andati a fondo. Naturalmente il nostro cavo s’era spezzato come spago al primo soffio dell’uragano, saremmo stati immediatamente perduti. Filavamo a una velocità spaventosa, col mare in poppa, e le onde ci investivano e passavano sopra di noi. L’intelaiatura della parte poppiera era irrimediabilmente danneggiata, e quasi dovunque gravissime erano le avarie; ma con estrema gioia scoprimmo che le pompe non erano bloccate e che la zavorra non si era spostata di molto. La gran furia della bufera era passata, così che ormai non avevamo più da temere la violenza del vento; ma la prospettiva che esso cadesse del tutto ci empiva di sgomento, convinti come eravamo che la nave, così fracassata, non avrebbe retto alla tremenda onda lunga che sarebbe seguita. Ma questa pur logica apprensione non pareva destinata a trovare immediata conferma. Per cinque giorni e cinque notti, durante i quali nostro solo nutrimento fu un po’ di zucchero di palma ricuperato a fatica dal castello di prua, lo scafo volò a una velocità incalcolabile sotto il rapido succedersi di colpi di vento che, senza uguagliare l’iniziale violenza del simun, erano pur sempre più terribili di ogni tempesta che fino allora avessi incontrato. Per i primi quattro giorni la nostra rotta fu, con lievi variazioni, Sud-Est e Sud: quasi certamente, saremmo finiti sulla costa della Nuova Olanda. Il quinto giorno, sebbene il vento fosse girato di un quarto di bussola verso nord, il freddo divenne estremo. Il sole si levò con un estenuato lucore giallastro e salì di pochissimi gradi all’orizzonte, senza emettere una vera e propria luce. Non c’erano nubi in vista, e tuttavia il vento aumentava di forza e soffiava improvviso e discontinuo. Verso mezzogiorno, per quel tanto che potevamo calcolare, l’aspetto del sole attrasse di nuovo la nostra attenzione. Non diffondeva, propriamente, una luce, ma una luminescenza opaca e scialba, senza riflessi, come se tutti i suoi raggi fossero polarizzati. Subito prima di affondare nel mare rigonfio, il fuoco al suo centro si spense di colpo, quasi bruscamente estinto da una qualche potenza ignota. Non era più che un diafano alone argenteo, quando precipitò nell’insondabile oceano.

Versione in lingua inglese

Invano attendemmo il sesto giorno: per me quel giorno non è arrivato ancora – per lo svedese non arrivò mai. Da allora in poi ci avvolse un piceo sudario di tenebra, così che non potevamo scorgere un oggetto a venti passi dalla nave. Ci avviluppava una notte senza fine, mai mitigata dalla fosforescenza marina cui eravamo avvezzi nei tropici. Notammo anche che, sebbene la tempesta seguitasse a infuriare con implacata violenza, non osservavamo più quello spumare, quel ribollire delle acque che fino a quel momento ci avevano seguito. Attorno a noi tutto era orrore, e ombra fitta e un nero, afoso deserto d’ebano.

Un terrore superstizioso si insinuò a poco a poco nello spirito del vecchio svedese, e la mia anima si smarrì in silenzioso stupore. Tralasciammo di attendere a ogni manovra, ormai peggio che inutile e, dopo esserci legati il più saldamente possibile al troncone dell’albero di mezzana, volgevamo lo sguardo amaro sull’immensità dell’oceano. Non avevamo modo di misurare il tempo, né potevamo farci un’idea della nostra posizione. Tuttavia eravamo più che certi di esserci spinti più a sud di ogni altro navigatore prima di noi, e molto ci stupiva di non incontrare le solite barriere di ghiaccio. Frattanto ogni istante minacciava di esser l’ultimo; ogni ondata gigantesca si avventava su di noi per sopraffarci. Mare lungo, e d’un turgore che mai avrei immaginato possibile: che non ne fossimo subito inghiottiti è un miracolo. Il mio compagno parlava del modico peso del nostro carico e mi rammentava le eccellenti qualità della nave; ma io non potevo non sentire tutta la disperazione della speranza e tetramente mi preparavo a quella morte che, pensavo, nulla poteva ritardare più di un’ora giacché, a ogni nodo percorso dalla nave, le enormi ondate nere divenivano più gonfie e orride e sinistre. Talora, ad altezza maggiore di un volo di albatro, boccheggiavamo e il respiro ci mancava, talora ci prendeva la vertigine nella precipite discesa in qualche acqueo inferno, dove l’aria stagnava, né suono alcuno turbava i sonni del kraken.

Eravamo in fondo a uno di questi abissi, quando il subito grido del mio compagno paurosamente squarciò la notte. «Guarda! guarda!», mi urlò nelle orecchie, «Dio onnipotente! Guarda! guarda!». Mentre parlava, notai una luce rossastra, opaca e fosca, che spioveva lungo i fianchi dell’enorme voragine in cui ci trovavamo e accendeva tremuli riflessi sul ponte della nave. Levai gli occhi, e vidi uno spettacolo che mi gelò il sangue. A un’altezza spaventosa, proprio sopra di noi, proprio sull’orlo dell’abisso scosceso, si librava una nave gigantesca di forse quattromila tonnellate. Benché sollevata sulla cresta di un’onda anche cento volte più alta, le sue dimensioni apparivano maggiori di quelle di qualunque nave di linea o mercantile delle Indie d’allora. La carena enorme, di un nero denso e opaco, non era, come quella delle altre navi, adorna di figure a intaglio. Dal portelli aperti sporgeva ininterrotta una fila di cannoni d’ottone dalle cui lucide superfici riverberavano i fuochi di innumerevoli lanterne da combattimento che dondolavano appese all’alberatura. Ma quello che soprattutto ci empì d’orrore e stupore, era che la nave reggesse a vele spiegate la furia di quel mare soprannaturale, di quell’uragano incontenibile. Quando la scorgemmo, se ne vedeva solo la prora, mentre lentamente si levava dal fosco, orrido baratro che le si apriva dietro. Per un attimo di intenso terrore sostò sulla vetta vertiginosa quasi a contemplare la propria sublimità, poi tremò, vacillò, e piombò giù.

In quell’istante, non so quale subita calma pervase il mio spirito. Brancolando, mi spinsi quanto più potei verso poppa e attesi impavido la catastrofe incombente. Il nostro vascello stava infine rinunciando alla lotta e a capofitto sprofondava nel mare; di conseguenza l’urto della massa, precipitando, colpi quella parte dello scafo che già era quasi sott’acqua, con l’inevitabile risultato di scaraventarmi con irresistibile violenza sull’alberatura della nave sconosciuta.

Mentre cadevo, la nave si arrestò, poi virò completamente di bordo; e alla confusione che seguì attribuii il fatto di essere sfuggito all’attenzione dell’equipaggio. Senza difficoltà, raggiunsi non visto il boccaporto principale, che era parzialmente aperto, e ben presto trovai modo di acquattarmi nella stiva. Perché lo facessi, non so dire. Un indefinibile senso di paura, che si era impadronito della mia mente al primo scorgere gli uomini che erano a bordo, mi aveva forse indotto a cercare un nascondiglio. Riluttavo ad affidarmi a gente che al primo, sia pur rapido sguardo, mi aveva dato, con la sua aria indefinibilmente strana, tanti motivi di dubbio e timore. Ritenni quindi opportuno scovare nella stiva un luogo ove nascondermi. Questo feci spostando una piccola parte delle tavole mobili così da crearmi un rifugio adatto tra le enormi coste della nave.

Avevo appena terminato il mio lavoro, quando un suono di passi nella stiva mi costrinse a servirmene. Un uomo passò accanto al mio nascondiglio con faticosa e instabile andatura. Non riuscii a vederlo in volto, ma potei osservare il suo aspetto. V’erano in esso tracce evidenti di estrema vecchiezza e infermità. Le sue ginocchia vacillavano sotto il gran peso degli anni, e tutta la persona tremava di quel fardello. Borbottava tra sé a voce bassa e rotta parole di una lingua che non potei capire, e frugò in un angolo in mezzo a un mucchio di strumenti bizzarri e logore carte nautiche. I suoi modi erano uno strano miscuglio della querula scontrosità propria della seconda infanzia, e della solenne dignità d’un dio. Infine risalì sopra coperta, e non lo vidi più.

Si era impadronito del mio animo un sentimento cui non so dare nome – una sensazione che non ammette analisi, cui le lezioni dei tempi passati sono inadeguate, e della quale, temo, lo stesso futuro non mi fornirà la chiave. Per una mente conformata come la mia, quest’ultima considerazione è il Male. Non potrò mai – so che non lo potrò mai – soddisfare la mia curiosità circa la natura di queste mie idee. E tuttavia non mi sorprende che tali idee siano indefinite, giacché traggono origine da fonti affatto inusitate. Un nuovo senso, una nuova entità si sono aggiunte alla mia anima.

Molto tempo è trascorso da quando per la prima volta misi piede sulla tolda di questa nave terribile e, credo, i raggi del mio destino stanno per concentrarsi in un unico fuoco. Uomini incomprensibili! Immersi in meditazioni che non posso penetrare, mi passano accanto senza notarmi. Nascondermi è pura follia, perché questa gente non vuole vedermi. Giusto adesso sono passato davanti agli occhi del secondo; poco prima mi sono avventurato nella cabina privata del capitano, dove ho preso i materiali con cui scrivo e ho scritto finora. Di tanto in tanto continuerò questo diario. È vero che forse non troverò modo di trasmetterlo al mondo: tuttavia voglio tentarlo. All’ultimo momento racchiuderò il manoscritto in una bottiglia e la getterò in mare.

È sopravvenuto un incidente che mi ha dato nuovo spunto di meditazione. Cose siffatte sono davvero opera di un capriccio del caso? Mi ero arrischiato a salire sopra coperta e mi ero buttato, senza destare l’attenzione di alcuno, su un mucchio di cordami e vecchie vele in fondo alla scialuppa. Mentre meditavo sulla singolarità del mio destino, presi distrattamente a imbrattare con un pennello da catrame gli orli di una vela di coltellaccio accuratamente ripiegata che mi stava accanto, posata su un barile. Ora la vela è stata spiegata sulla nave, e quelle pennellate casuali si dispiegano anch’esse, disegnando una parola: SCOPERTA.

Recentemente ho fatto parecchie osservazioni sulla struttura del vascello. Benché bene armata, non è, a mio parere, una nave da guerra. Alberatura, costruzione e attrezzatura permettono di escludere una supposizione del genere. Ciò che non è, posso facilmente vederlo; ciò che è, temo sia impossibile dirlo. Non so come sia, ma osservando la strana foggia e la singolare guarnitura dei pennoni, la mole enorme e la sovrabbondante velatura, la prora semplice e austera, la poppa desueta, a tratti mi balena per la mente una sensazione di cose familiari, e sempre a queste indistinte ombre della memoria si mescola un inspiegabile ricordo di antiche cronache straniere e di età remote…

Ho guardato il fasciame della nave. È costruita con un materiale a me sconosciuto. C’è in questo legno, una qualità che, noto con sorpresa, lo rende inadatto allo scopo cui è stato destinato. La sua estrema porosità, intendo una porosità che non dipende dallo sfacelo dei tarli, conseguenza della navigazione in questi mari, né da decrepita marcescenza. La mia potrà forse apparire un’osservazione azzardata, ma questo legno avrebbe tutte le caratteristiche della quercia spagnola, se mai la quercia spagnola potesse essere dilatata e spianata con mezzi artificiali.

Rileggendo quest’ultima frase, mi torna nitido alla mente il curioso apoftegma di un vecchio lupo di mare olandese: «È certo», soleva dire, quando la sua veracità veniva messa in dubbio, «così come è certo che esiste un mare, dove la nave stessa cresce di mole, come il corpo vivo del marinaio»…

Circa un’ora fa, ho avuto l’ardire di infilarmi in un gruppo di marinai. Non mi badarono per nulla, e sebbene stessi proprio in mezzo a loro, parvero assolutamente ignari della mia presenza. Al pari di quello che per primo avevo visto nella stiva, tutti recavano i segni di una canuta vecchiaia. Avevano ginocchia tremolanti d’infermità; spalle piegate dall’età decrepita; pelle aggrinzita che crepitava al vento; e voci basse, tremule e rotte; occhi ingrommati dagli anni e lucenti; e grigi capelli incolti nella sferza della tempesta. Intorno a loro, per tutta la tolda, giacevano sparsi strumenti matematici di foggia stravagante e obsoleta…

Ho menzionato, non molto tempo fa, quella vela spiegata. Da allora in poi la nave, sotto la spinta del vento, ha continuato la sua orrida corsa verso sud, spiegato ogni straccio di vela, dalla vela di gabbia alle bome dei coltellacci inferiori, immergendo di continuo i pennoni di parrocchetto nel più terrificante inferno d’acqua che mente umana possa immaginare. Ho appena lasciato il ponte, dove mi era impossibile reggermi in piedi, sebbene la ciurma non sembri gran che a disagio. E per me il miracolo dei miracoli che questa nostra enorme mole non venga subito inghiottita, e per sempre. Noi siamo certo condannati a stare continuamente sospesi sul ciglio dell’eternità senza mai tuffarci definitivamente nell’abisso. Da marosi mille volte più formidabili di quanti io abbia mai veduto scivoliamo via con la speditezza di sfreccianti gabbiani; e le onde colossali levano la testa sopra di noi come demoni del profondo: demoni limitati alle sole minacce, ai quali è vietato distruggere. Sono portato ad attribuire la nostra reiterata buona sorte alla sola causa naturale che possa spiegare un effetto simile. Debbo supporre che la nave sia governata da qualche forte corrente o da un impetuoso riflusso…

Ho visto il capitano a faccia a faccia, nella sua cabina, ma, come prevedevo, non mi ha prestato la benché minima attenzione. Sebbene agli occhi di un osservatore casuale non vi sia nulla nel suo aspetto che possa rivelarlo più o meno che umano, tuttavia un sentimento di irreprimibile riverenza e timore si mescolava alla sensazione di stupore con cui lo riguardavo. Ha all’incirca la mia statura, cinque piedi e otto pollici. La corporatura è proporzionata e compatta, non pesante, né in altro senso rimarchevole. Ma è la singolarità dell’espressione che gli segna in volto quell’intensa, mirabile, sconvolgente evidenza di una vecchiaia così estrema, così assoluta, che stimola nel mio spirito un senso – un sentimento ineffabile. La sua fronte, benché appena rugata, sembra segnata dall’impronta di millenni. I capelli grigi sono reliquie di un remoto passato, e gli occhi ancor più grigi sibille del futuro. Il pavimento della cabina era tutto ricoperto di in-folio strani, chiusi da fermagli di ferro, di strumenti scientifici guasti e mappe antichissime, da lungo tempo dimenticate. Teneva il capo chino sulle mani e con occhio ardente, inquieto, studiava una carta che a me parve una regia patente e che, ad ogni modo, recava la firma di un monarca. Mormorava fra sé – come quel primo marinaio che vidi nella stiva – sommesse, querule sillabe in una lingua ignota; e benché mentre parlava mi fosse vicinissimo, la sua voce parve giungermi da un miglio di distanza.

La nave e tutto ciò che contiene sono impregnati dello spirito di epoche remote . I marinai vanno su e giù silenziosi, come spettri di secoli sepolti; gli occhi hanno un’espressione ansiosa e inquieta; e quando le loro figure m’incrociano nella luce stranita delle lanterne da combattimento, mi sento come mai mi sono sentito in passato, sebbene durante tutta la mia vita io abbia trattato in antichità, assorbendo l’ombra delle colonne prostrate di Balbec, Tadmor, Persepoli, finché la mia anima è divenuta anch’essa una rovina.

Quando mi guardo intorno, mi vergogno della mia apprensione di prima. Se tremavo alla raffica che finora ci ha inseguiti, non rimarrò inorridito davanti a questa guerra di vento e d’oceano, di cui parole come tornado e simun – logore, inadeguate parole – non possono render l’idea? Dovunque, nelle immediate vicinanze della nave, è il nero della notte eterna, e un caos di acque senza schiuma; a circa una lega da noi, su ambo i lati, si scorgono a intervalli, indistinti, prodigiosi baluardi di ghiaccio, che torreggiano nel cielo desolato, simili alle mura dell’universo…

Come immaginavo, la nave è di fatto sospinta da una corrente, se con tale parola si può propriamente definire una marea che, urlando e stridendo tra il biancore del ghiaccio, punta tuonando a sud, con la velocità di precipite cascata…

Concepire l’orrore delle mie sensazioni e, suppongo, assolutamente impossibile; e tuttavia la curiosità di penetrare i misteri di queste tremende regioni vince la mia stessa disperazione, e mi riconcilierà il più orrido aspetto della morte. È evidente che stiamo precipitosamente avanzando verso qualche rivelazione sconvolgente, verso qualche incomunicabile segreto, la cui conquista è la morte. Forse questa corrente ci conduce direttamente al Polo Sud. Tale ipotesi, apparentemente così stravagante, è, bisogna ammetterlo, suffragata da ogni probabilità…

I marinai percorrono il ponte con passi tremuli e inquieti; ma i loro volti esprimono piuttosto l’ardore della speranza che l’apatia della disperazione.

Intanto il vento è ancora in poppa, e poiché inalberiamo una folla di vele, a volte la nave si solleva, tutta quanta, alta sull’acqua. Oh, orrore sopra orrore! Di colpo, a dritta e a sinistra, il ghiaccio si spalanca, e noi vertiginosamente ruotiamo in immensi cerchi concentrici tutt’intorno agli orli di un gigantesco anfiteatro, la sommità delle cui mura si perdono nella tenebra e nella distanza. Ma poco tempo mi rimarrà per meditare sul mio destino! Rapidamente i cerchi si restringono – piombiamo nella morsa del gorgo – e fra i rombi e i mugghii e i tuoni dell’oceano e della tempesta, la nave trema – oh Dio! – sprofonda!

Nota dell’Autore. Il «Manoscritto trovato in una bottiglia» fu originariamente pubblicato nel 1831, e solo molti anni dopo venni a conoscenza delle carte del Mercator, nella cui rappresentazione l’oceano, attraverso quattro bocche, precipita nel Golfo Polare (Settentrionale) per venire inghiottito dalle viscere della Terra; il Polo vi è raffigurato da una roccia nera, che torreggia a prodigiosa altezza.

* * *
Edgar Allan Poe pubblicò Manoscritto trovato in una bottiglia (in inglese MS. Found in a Bottle) per la prima volta il 19 ottobre 1833 sul Baltimore Saturday Visiter, vincendo peraltro un premio di 50 dollari indetto dallo stesso periodico (in Edgar Allan Poe, Il pozzo e il pendolo e altri racconti, traduzione di Elio Vittorini e Delfino Cinelli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2001, pag. XVI-XVII). Il manoscritto è il diario di un lungo viaggio in mare nel corso del quale il narratore  si trova ad affrontare strane circostante e terribili pericoli. Consapevole di avvicinarsi alla morte, mentre la nave volge rapidamente verso sud, affida il suo manoscritto alle onde, affinché qualcuno sappia che cosa gli è accaduto.

Illustrazione di copertina tratta da “Wogel”, contenuta in una antica edizione dei racconti di Edgar Allan Poe.

Edgar Allan Poe, Il pozzo e il pendolo e altri racconti, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2001. ISBN 88-04-49530-8

Pagina del Baltimore con la prima pubblicazione del racconto

- 09/01/2018

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