Il tessuto del tempo
Verweile doch! Du bist so schön!1
Goethe, Faust, I, Studierzimmer
E=mc2
1.
Il bilancio degli anni è operazione
che conviene lasciarla ai ragionieri
stipendiati di cronaca locale,
ai giornalisti scaltri di vacanze
collettive, esentati per ufficio
dal pensare: gli basta qualche tratto
dilapidato in fretta sul computer,
nodi dell’oggi, al massimo di ieri,
grumo d’inestricabili garbugli,
tra immaginarie raffigurazioni
e provvisorie certificazioni,
lo scarto del domani si prepara
con nuova e ragionevole smentita
per un oggi che soffre a farsi tempo.
2.
Ma di come, sul vicolo appartato
dietro la chiesa di Cavaradossi2,
di come sappia lì configurarsi
l’informe che ti assedia, non c’è forma
che ne contenga la fisionomia,
se anche chi pensa, e annoda i fili
della giornata sulla carta bianca
del taccuino nero squadernato
distrattamente, ma con accortezza,
sul tavolino, vedo che assomiglia
a un me stesso dissimulato e bianco,
tra le tempie, tu moro, invece, un vecchio
così diverso – o no? – dal presuntuoso
pischello, ancora quasi un apprendista
del saccheggio, erudito pellegrino
sui movimenti della selvaggina;
ti sogguardo, che accantucciato siedi
a sorseggiarti il tuo caffè macchiato,
rintuzzando con una sconcia smorfia
la smorfietta del vecchio che ti guarda –
seduttore impacciato, intermittente,
ma certo – e tu, bambino, sei sedotto,
anzi perfino lusingato, vero? –
comunque no, tu non lo ammetteresti:
scherziamo? un vecchio! – attratto, lusingato,
più che dalla mia smorfia, dal mio sguardo –
quanti altri, prima, dimmi, se lo pensi,
ti hanno così guardato? – figurarsi!
altro non vuoi che guardi anch’io quel tuo
guardarmi svergognato per il mio
che ti denuda, qui, davanti a tutti –
la grideresti adesso sulla strada,
davanti a tutti, questa maialata –
eppure pensa, sbaglieresti: vedi,
quel vecchio che ti guarda è ragazzino,
forse, che sai? ma più di te, che ostile
lo deridi, e, chi sa, meno impudico
del tuo incontinente ricusarne
il supplicante invito – solo un invito! –
che risponderti, adesso? se anche guardo
il disappunto con cui guardi il mio
disattenderti, io mi sottraggo, stufo,
al rimpiattino dell’adescamento.
Ma poi perché scusarmi o mascherarmi
perché, di ciò che per nessuno è colpa?
dove sta il male, fragile ragazzo,
se al vecchio bar, all’angolo di Via
dei Chiodaroli, un vecchio, mentre fissa
l’arredo rinnovato del locale.
sbircia la bella faccia di un ragazzo?
3.
Sbircio, più divertito che deluso,
la nuova mascherata, il riformato
galateo, l’impudica seduzione
che non vuole chiamarsi seduzione,
ma di come, ripeto, ricomincio,
io, smemorato seduttore, visto
il rifiuto del mimo, che poi presto
si fa sguardo di astuta accettazione,
di come, di che cosa sarà fatta
l’intesa, la parola, se parola
si dovrà poi ritessere tra noi,
e come, in questo vicolo stranoto
alla sua storia, come tra le case
rinnoverà la vecchia tavolozza
dei ricordi, e se scrive, ma che pasta
di linguaggio potrà però spalmare
sulla tela sgualcita, se finire
gli riuscirà un abbozzo, un breve schizzo,
improvvisato, certo, mica furbo,
o elaborato, sull’inaspettato
sussulto del cervello, se un cervello
ancora vive e pensa tra le tempie?
4.
Sa che tutto gli si permetterebbe,
o da sé stesso forse si vedrebbe
assolto, se cedesse finalmente
alla sobillazione dei ricordi,
e si lasciasse trattenere inerme
dal gioco, perché il tempo, questo baro
che nella vita non è mai chi dice
di essere, il tempo gli risparmierebbe
la fatica, per questa volta, di usare
astuzie e sotterfugi logorati,
si sentirebbe libero può darsi
di lasciarsi naufragare nel silenzio.
5.
Ma grida, allora, grida, idiota, questa
tua insoddisfazione! alza le chiappe,
abbracciala, la tua disperazione!
Ecco, vedi: il ragazzo si è girato
a guardarti, ha pagato il conto, lascia
i soldi tra la tazza e la caraffa
d’acqua sul tavolino, si alza, corre
via e sparisce come per incanto.
Tu lo guardi sparire. E ti sparisce,
tra le finestre spalancate, il sole
che si abbatte sui tetti delle case.
6.
Ogni finestra e ogni sampietrino
della strada conosce la tua voce.
Intonarla di nuovo, non potrebbe
mutare la stanchezza di riudirla.
Ammesso che una voce sappia e possa
la parete invisibile del tempo
attraversarla, e giungere immutata
all’incontro imprevisto delle cose
che il tempo invece l’hanno attraversato.
Abitavo, una volta, queste strade,
dormivo la mie notte in queste case.
Che serve precisare le ore, i giorni?
Temo piuttosto il vuoto dei rientri,
lo svuotarsi veloce dei ricordi,
l’inaridirsi del contenitore
indifferente, come quando a casa
si chiude il rubinetto della doccia,
ci si spalma il sapone sulla pelle,
e nel riaprire dopo il rubinetto
l’acqua ha dimenticato il suo calore
e scroscia fredda e tu rabbrividisci.
7.
Il gelo non si arresta al sopravvento
del disordine quotidiano, al fatuo
districarsi dell’occhio tra le cose
che sbarrano il tuo passo. Tutto è fatuo,
anche l’amore che sembrava eterno,
tutto finisce. Il sintomo è la noia,
quando il presente è soffocato e spento
dal fuoco di un passato che non passa.
Vertigine del tempo si scatena
in quel punto il tuo vortice compatto
di apparizioni, un fossile ficcato
nel cervello, che scava la sua nicchia
di vessazione, con un desiderio
impotente di rivisitazione
del piacere vissuto, del suo suono,
l’odore, il suo contatto, la parola:
un baratro di gioia che il dolore
dell’oggi fa sembrare di paura.
8.
Un buco nero che cancella il tempo,
sospensione di un attimo che dura
lo spazio dell’assenza di ogni tempo.
E io ti guardo, mio domani, fisso
coordinate del ragguaglio, cerco
il calcolo per una previsione,
ma il passato mi blocca e mi racchiude
se non nel pianto, nel rimorso assiduo
del perduto, travedo gli orifizi
distratti della tela, il tempo sembra
che si stracci, si perda nei frammenti
non più di ciò che fu vissuto, e perso,
ma dell’imponderabile universo
che non fu mai veduto né vissuto,
il paese del tempo che si volle,
ma che non si ebbe forza, o la fermezza,
di arrestarlo nel punto che passava.
9.
E resto. Dove, lo sapessi, invece
di scrivere, parlare, partirei.
Il bozzolo in cui sto racchiuso, larva
di me stesso, non sono mai riuscito
a schiuderlo, nessuno dunque un giorno
vedrà il mio volo. Né più spero mai
di riuscire a spiccarlo. Il mio domani
è questa stanza in cui se entra il sole
illumina pareti silenziose
dove parlano i libri. Avrei voluto
che almeno un libro me lo raccontasse.
Roma, Via dei Chiodaroli, 25 marzo – Fiano Romano, 4 aprile 2023
1Fermati, dunque! Sei così bello!
2Sant’Andrea della Valle, a Roma, dove si svolge il primo atto della Tosca di Puccini.