“Barriere”: la mise en scène del microcosmo di un uomo egocentrico

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Troy Maxson (Denzel Washington) lavora come netturbino nella città di Pittsburgh, dove vive insieme alla moglie Rose (Viola Davis) e suo figlio Cory (Jovan Adepo), futura promessa del football. Quella di Troy e della sua famiglia è una vita semplice, priva di lussi e sprechi, mirata solo ed esclusivamente a procacciarsi il necessario per il futuro. Ed è il futuro l’ossessione di Troy che, con un passato da giocatore di baseball, cerca in tutti i modi di imporre la sua ferrea disciplina del lavoro a Cory e al figlio maggiore Lyons (Russell Honrsby), avuto da un’altra relazione e considerato dal padre un perditempo vista la sua passione per la musica. Tra schermaglie e routine, Troy cerca in tutti i modi di prendersi cura dei suoi cari, compreso suo fratello Gabe (Mykelti Williamson). Ma i modi a volte bruschi e duri che Troy utilizza, rischiano di fargli perdere l’amore che la sua famiglia prova verso di lui.

L’attore e regista Denzel Washington torna per la terza volta dietro la macchina da presa dopo aver diretto i biopic Antwone Fisher (id., 2002) e The Great Debaters – Il potere della parola (The Great Debaters, 2007), per portare sul grande schermo Barriere (Fences, 2016). Trasposizione cinematografica della pièce teatrale Fences scritta nel 1983 dal drammaturgo August Wilson (scomparso nel 2005), Barriere è la storia comune di una famiglia di colore come tante negli States degli anni ’50, Nazione ancora ancorata alle divisioni razziali e di classe ma in pieno recupero dopo la tragicità del secondo conflitto mondiale. Fortemente influenzato dalla sua provenienza teatrale della quale, tra l’altro, ne riproduce la struttura limitata nell’azione, a Barriere spetta il ruolo di essere uno spaccato psicologico e introspettivo della e sulla vita famigliare.

Il terzo lungometraggio di Denzel Washington (che anche qui, come nei precedenti Antwone Fisher e The Great Debaters, recita oltre a dirigere) si offre allo spettatore in tutta quella che è la sua diretta semplicità: non ci sono location sparse e ampie, non vi è la presenza di episodi al di fuori delle mura domestiche (fatta eccezione per alcune brevissime e rapsodiche scene) poiché il dramma esistenziale si consuma, completamente, tra casa e giardino, in quell’area circoscritta e circoscrivibile come zona franca in cui sentirsi al riparo dal mondo esterno. Se da un lato Barriere è una non tanto celata critica agli Stati Uniti divisi dal colore della pelle e dalle etnie – a loro volta suddivise – tra white power e prodromi del black power, dall’altra parte è grazie a questa delimitazione se il regista è capace di attuare la mise en scène del microcosmo di un uomo egocentrico. Il Troy Maxson energeticamente interpretato dallo stesso Washington, è un uomo fatto e finito che non è riuscito ad ottenere dalla vita tutto quello che sperava e, proseguendo su una via più semplicistica, ha deciso di far propria l’esistenza basata sull’addizione famiglia-lavoro-casa. Un trittico, una trinità su cui ha eretto il suo personale spazio e in cui, all’interno dei confini ben delineati, può sentirsi al sicuro vicino a tutto quello che per lui è più importante: la famiglia e il futuro di essa.

Barriere è l’affresco di un uomo incapace di mirare in alto, di un marito, padre e fratello che ha incassato troppe delusioni ed ha ricevuto molte porte chiuse in faccia. Un uomo che stabilisce l’equilibrio del nucleo famigliare su una rigida gerarchia e sugli insegnamenti mirati a far capire di cosa ci sia veramente bisogno per soprav(vivere) una volta affacciatisi nell’età adulta. Contemporaneamente Barriere – al pari delle due facce di una medaglia – dimostra come, dietro una facciata all’apparenza fatta di rigidità e rigore, si nasconda l’incapacità di mantenere il cammino sulla retta via e, nonostante si parli tanto di educazione e di princìpi, anche il più duro e severo degli uomini possa cadere nell’angolo dell’errore e della mellifluità sentimentale, senza tuttavia spezzare l’unione e l’equilibrio del nido prima perduti e poi recuperati nel momento in cui lo smembramento del nucleo famigliare viene ricomposto dal passaggio di testimone da padre a figlio.

Privo di manierismi di sorta e di appesantimenti relativi al genere, arricchito da una meravigliosa fotografia e da un affiatato cast all black capitanato da Denzel Washington a cui – spesso e volentieri – ruba la scena la vulcanica e intensa Viola Davis, Barriere è la lucida e intima analisi del rapporto tra marito e padre verso moglie e figli, di quel lungo percorso di vita che si trascorre insieme ai propri cari, cercando di assicurare la presenza di un punto di riferimento capace di dare saggi consigli e tramandare i giusti insegnamenti affinché si possano evitare quegli errori, quelle identiche colpe paterne che – a volte – (ri)cadono sui figli.

- 11/12/2017

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