“Animal Kingdom”: la discesa agli inferi di una famiglia criminale

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Dopo la morte della madre avvenuta per overdose da eroina, l’adolescente Joshua “J” Cody (James Frecheville) si trasferisce dalla nonna Janine (Jackie Weaver), matriarca di una rinomata famiglia criminale, e i suoi tre figli Andrew “Pope” (Ben Mendelsohn), psicopatico rapinatore ricercato dalla squadra anticrimine della polizia, Craig (Sullivan Stapleton), trafficante di droga e Darren (Luke Ford) costretto a seguire le orme criminose dei fratelli. Complice in affari è Barry “Baz” Brown (Joel Edgerton), vecchio amico di Pope che ha deciso di ritirarsi dall’attività. Quando i corrotti agenti di polizia che tengono sotto controllo l’intera famiglia uccidono Baz, Pope cerca vendetta per le strade di Melbourne, coinvolgendo a suo malgrado lo spaesato Joshua. Costretto a seguire gli ordini dello zio, Joshua trova un’ancora di salvezza nel sergente maggiore Nathan Leckie (Guy Pearce), l’unico poliziotto che vuole incastrare i Cody senza spargimenti di sangue.

Raccontare storie di ascese criminali e gangsteristiche è uno dei tòpoi della cinematografia fin dagli anni Trenta. Nonostante la maggior parte delle pellicole crime sia frutto della fantasia, spesso sul grande schermo vengono raccontate le vite e le imprese a delinquere di figure “leggendarie” del crimine esistite realmente. Seguendo la tradizione a cavallo tra questi due archetipi, il regista australiano David Michôd (The Rover, 2014) ha consegnato al pubblico la sua visione d’insieme sul crimine con Animal Kingdom (id., 2010). Ispirato ad un fatto di cronaca realmente accaduto nel 1988 a Melbourne (una sparatoria avvenuta nel quartiere di South Yarra), Animal Kingdom vanta un incipit in media res, facendo immergere lo spettatore nel bel mezzo delle cose e delle esistenze della famiglia Cody. Rispecchiando perfettamente l’immaginario legato al mondo criminale e mostrando, di pari passo e senza filtro alcuno, i meccanismi e gli ingranaggi che muovono il sottobosco fatto di spaccio e rapine a mano armata, Michôd si avvale di un’accurata analisi antropologica, volta a mettere in analisi le personalità delinquenziali di un intero nucleo famigliare.

La famiglia al centro di Animal Kingdom, infatti, risponde alla logica animalesca del branco (insita nel titolo stesso del film) mirata allo scopo di dominare e sbaragliare tutti i potenziali ostacoli che si frappongono tra essa e la preservazione del nucleo, in modo tale da garantirne la sopravvivenza e il dominio. Stranamente al capo del branco non vi è un maschio dominante ma la Janine interpretata con piglio mefistofelico da Jackie Weaver, donna Alfa, madre e nonna che detta legge sui figli e su Joshua, il neo acquisto del clan. L’unica figura maschile capace di contrastare la megalomania della matriarca è quella di Barry, amico e sorta di padre putativo per i tre fratelli, il quale riesce a capire che è giunta l’ora di ritirarsi dalle attività, mettere al sicuro i (disonesti) guadagni e vivere un’esistenza più tranquilla. Nel Barry “Baz” di Joel Edgerton è riposta l’unica capacità di raziocinio maschile, in netto contrasto con l’instabilità mentale del violento Pope, con i deliri paranoidi di Craig e la pavidità di Darren.

Animal Kingdom si distanzia dall’iconografia barocca e violenta del gangster proposta da Brian De Palma in Scarface (id., 1983), così come da quella brutale, psicotica e annichilente al centro di Quei bravi ragazzi (Goodfellas, 1990) e Casinò (Casino, 1995) di Martin Scorsese. Semmai il film del regista australiano, influenzato da molta cinematografia noir, è all’insegna della morte tragica, del decadimento e dello sfaldamento dell’unione famigliare che si consuma sotto lo sguardo (quasi) innocente di Joshua, costretto a vedere la discesa agli inferi di una famiglia criminale, di cui lui stesso ne è artefice, per poi prenderne le redini in toto.

Se da una parte Animal Kingdom concentra tutta la sua carica sul microcosmo criminale dei Cody, dall’altra mostra anche la corruzione e i metodi illegali di chi, avvalendosi della legge, dovrebbe applicare una giustizia giusta nei confronti del crimine. In Animal Kingdom la polizia mette in luce il lato oscuro del distintivo, il marcio (a volte) nascosto sotto l’uniforme e il giubbotto antiproiettile e che porta, inevitabilmente, a esecuzioni e regolamenti dei conti degni di tanto genere western. In tutto questo, in questa faida tra criminali e corrotti, l’ago della bilancia è incarnato dall’onesto poliziotto Leckie, in grado di essere una linea di demarcazione tra il confine che separa il crimine dalla legalità e la legalità dal crimine.

Animal Kingdom è un efficiente esercizio di stile, lontano dal gangster movie inteso come tale ma più vicino alla tradizione del polar. Un dramma lento ma avvincente che si snoda tra ralenti, silenzi, sguardi che si incrociano e immagini a volte algide e dai colori spenti, in cui il sangue scorre e la morte è una costante fissa, tutto sotto l’insegna della legge del più forte, dell’ “animale” capace di dimostrare e mettere in atto il suo istinto di sopravvivenza e, così, diventare il nuovo leader della giungla criminosa della metropoli.

- 11/12/2017

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