Quello che ho fatto? Ci sono andata. Quello che non ho fatto? Non ci son rimasta. Quello che vorrei fare? Tornarci.
Chieko ha attraversato mezzo mondo per venire a trovarmi. E’ tornata indietro nel tempo di sette ore con un solo volo da Oriente a Occidente, Osaka-Milano. Invece, questione di continuità territoriale (che non c’è), per raggiungere la mia isola ha dovuto far tappa a Roma. Mi è venuto un colpo al cuore quando ci siamo abbracciate all’aeroporto. C’eravamo lasciate tre anni fa, dicendoci goodbyein una città straniera per entrambe dove lei però sarebbe tornata dopo le vacanze estive.
Marcin si era svegliato presto per aiutarmi con le valigie che pesavano molto più dei venti chili consentiti. Pioveva e, all’aeroporto, per qualche istante, incapace di muovermi con tutti quei bagagli da trascinare, ero rimasta immobile sotto la pioggia. Era una giornata grigia e non occorreva una particolare sensibilità meteoropatica perché mi sentissi in sintonia col clima. Avevo letto in un periodico femminile che una delle dieci cose migliori del sesso è il primo viaggio all’estero da sole. E’ comprensibile quindi che al termine di quell’esperienza “meglio del sesso” non mi sentissi al settimo cielo. Anche se stavo tornando alla mia terra, la mia famiglia, la mia casa, i miei amici.
Avevo lasciato il mio paese verso le cinque del mattino di quindici mesi prima, fatto tappa a Roma, poi a Londra per alcune ore e infine raggiunto Edinburgh in serata. In ogni aeroporto avevo telefonato a casa per rassicurare mia madre e, della serie “siamo donne”, avevo dovuto far visita ai bagni per controllo ed eventuale cambio assorbente. A Roma, una scolaresca in gita aveva scandito il conto alla rovescia suscitando il divertimento di una coppia English-speaking ed io, rassicurata da quei sorrisi, mi ero detta “andrà tutto bene”. Lasciata Londra alle spalle, volando verso Edimburgo, per due volte, stupita, avevo ammirato il tramonto. Arrivata a destinazione, nella città già immersa nell’oscurità, quando dal taxi, in una casa dalle grandi finestre e con le luci accese, i miei occhi avevano captato un bel ragazzo a torso nudo, ancora più convinta mi ero ripetuta “Sì, andrà tutto bene!”. All’aeroporto di Londra avevo incontrato Alessandro che mi aveva raggiunto per tenermi compagnia. Meno di una settimana dopo era venuto a Edimburgo per qualche giorno. Arrivato col pullman di primo mattino, aveva trovato una città deserta che gli era sembrata un paesone. Anche per una signora di Bristol, con cui una sera d’estate avevo cenato a Pollock, non era una “città”.
Qualcuno, per incoraggiarmi prima della partenza, mi aveva detto che sarebbe stata un’esperienza alienante. Sapevo anche che non mi sarei certo trovata davanti immagini da cartolina. Infatti: era molto meglio! E, nonostante gli iniziali balbettamenti in inglese, forse perché la città poteva apparire come un paese, niente di alienante. Avvisavo tutti all’inizio “My English is very bad” finché un giorno l’idraulico, scozzese, mi aveva risposto sorridendo “Anche il mio!”.
Una mattina, Alessandro ed io avevamo deciso di pranzare con la colazione locale. Non avevo ancora letto né visto Trainspotting ma comunque non avevo mangiato né i fagiolini con la salsa né il black pudding. Mentre Alessandro poi si era allontanato, una coppia aveva attaccato bottone chiedendo da dove venissimo. “Dall’Italia” “Da quale parte?” “Dalla Sardegna” “Ah… Non dall’Italia dunque”. Come avrei scoperto qualche tempo dopo da Tesco, alcuni prodotti made in Italy mostravano l’“Italia”: lo Stivale e la Sicilia. Nessuna traccia del Piede-Isola. Ero stata quindi felice di scovare (e acquistare) il nuragus prodotto in provincia di Cagliari.
A Pollock Halls avevo una stanza tutta per me ma inizialmente sentivo la mancanza di una, certo poco woolfiana, stanza da bagno tutta per me. Ho cambiato stanza tre volte ma per fortuna tutte le volte, anche se da prospettive diverse, era una camera con vista sul parco (e sul parcheggio). In Grecia avevo ammirato la collina col profilo di Agamennone; ora, da una delle finestre della mia camera, posso contemplare l’uno di fronte all’altro i due profili di Napoleone ed Eleonora d’Arborea. Dalle finestre di Pollock vedevo vicinissimo il dorso di un leone sdraiato. Una delle poche cose rimaste immutate della Edimburgo anni ‘30 di Muriel Spark. Avrei scoperto che si chiama Arthur’s Seat. Marcin mi aveva detto che se uno si voleva sfogare poteva raggiungere la cima e urlare al vento lassù. Chieko aveva scalato la collina più volte. A Pollock avevano organizzato anche un’escursione notturna. Sapevo che dalla vetta il panorama, complice il vento, toglieva il fiato ma non sono mai stata una grande arrampicatrice. Nemmeno Ayako, ma un sera, una delle ultime settimane del nostro soggiorno, c’eravamo decise alla, fino alla fine rimandata, grande impresa, passando dal lato meno ripido ovviamente. Ebbene, devo confessare di non aver raggiunto la cima neanche quella volta. Forse perché temevo la vertigine. Il panorama del resto era stupendo anche ai piedi di Arthur’s Seat. Passeggiando lungo i Salisbury Craigs potevo distinguere il Palazzo diHolyroodhouse che, a dire la verità, non ho mai visitato, e seguire i profili degli edifici lungo il Royal Mile, individuare la cattedrale di St. Giles, fino al Castello (visibile quasi da ogni punto della città), intravedere anche il ponte decorato d’azzurro, Calton Hill, il Firth of Forth.
Una sera un ragazzo mi aveva fermato. Era seduto, la bici a terra. Tirando fuori tabacco, cartina, accendino e una a me sconosciuta pasta scura, aveva detto “Where’s the police? No police!”. Il vento era forte e mi aveva pregato di fargli da scudo. E così quella volta, risvegliatasi la nostalgia per la patria lontana, avevo intitolato la lettera a mia sorella “Canna al vento”.
Quando ero stata a Londra, qualche mese prima, avevo riassaporato il mirto che Alessandro aveva regalato a due suoi amici irlandesi. Ci avevano cucinato “lasagna” ed io, dopo aver accuratamente evitato per mesi la carne di manzo nonostante l’assicurazione pollockiana che si trattava di Scottish beef, per non apparire maleducata, avevo cenato mangiando “lasagna” con intermittenti, non molto rassicuranti, pensieri rivolti alle mucche pazze.
Avevo visto Trainspotting (il film) ma non avevo ancora letto il libro perciò non sapevo del glorioso viaggio Edimburgo-Londra in pullman di Mark Renton and company. Alessandro mi aveva assicurato che l’unico disturbo sarebbe stato un po’ di mal di schiena il giorno dopo. Fortunatamente, il giorno dopo la mia schiena non aveva risentito di nove ore di contorsioni sul sedile. In compenso in quelle nove ore avevo vomitato l’anima nel mini-bagno.
Londra mi aveva sorpreso. Immaginavo una città grigia, nebbiosa, piena di altissimi palazzi, tremendamente caotica. Niente di tutto questo: però Edimburgo già mi mancava. Mentre alBritish Museum visitavo una delle sale di arte romana, eravamo stati invitati ad uscire senza panico. Alessandro, quella mattina impegnato col suo volontariato, mi aveva poi detto che la preoccupazione per gli incendi è molto British. Uno dei primi giorni a Pollock, non bastandomi il termosifone, avevo acceso la stufetta elettrica. Immediatamente si era sprigionato un inconfondibile odore di polvere bruciata e, pochi istanti dopo, ero stata assordata dalla sirena acuta dell’allarme. Spaventata, avevo spento subito. Solo più in là avrei scoperto che si trattava delle esercitazioni settimanali e che ero innocente e senza colpa.
Il sabato della settimana che precedeva la mia partenza definitiva non ero andata adAberdeen con Chieko e David a trovare Iftikhar. Avevo già promesso a Marcin e Kien Kok che sarei andata con loro a Glasgow ad un party a casa di Eric. Avevamo trascorso lì quella breve e chiara notte di Giugno. Eric mi aveva anche detto che ero charming mentre dormivo. E ora chi me lo dice? Chi mi dice Morning dear come a Pollock?
La mia camera D10 stava al piano terra: gli scoiattoli potevano così venire a mangiare sul davanzale. Scoiattoli grigi e marron, cicciotti e simpaticoni, non piccoli e rossicci come quelli che poi ho visto a Vienna. Non avevo però detto ai miei che una notte quella camera era stata visitata anche dai ladri e che, di conseguenza, la polizia mi aveva insignito dell’invidiabile etichetta di “vittima di reato”. Ora non vedo più gli scoiattoli sul davanzale. In compenso, i pipistrelli, che sono specie protetta, planano dalle grondaie della mia casa. Questo significa che qui l’aria non è inquinata il che, naturalmente, mi rasserena.
Si dice che non esistono posti felici ma solo posti in cui siamo stati felici. Ebbene a me piaceva vivere a Edimburgo e vivere, lo sappiamo tutti, non è essere ininterrottamente felici. Beh, a me piaceva vivere lì e probabilmente il viaggio più bello della mia vita sarà quello che mi riporterà, maybe for good – you never know… – in quella città che, a detta di Ian, è la più bella del mondo e di cui non avrei potuto non innamorarmi, città dove ho trascorso quindici mesi di amicizie internazionali, Chelidh, cene pollockiane in ore da merenda, seminari e lezioni in ore da pennichella, acquisti in Princes Street o nei charity shops, passeggiate inHolyrood Park, messe a St. Columba o funzioni diverse per la città, lezioni di ballo in una chiesa sconsacrata, feste latino-americane, nostalgie, lontananze, partenze, saluti, lettere scritte e ricevute, incontri mancati, cieli immersi in un costante pallore da sette del mattino, doppi rubinetti ai lavandini, lavamano al posto del bidet, dessert ipercalorici, assaggi dihaggis e whisky, escursioni nelle Highlands o nei Borders, biblioteche a scaffale aperto, video in Common Room due volte a settimana, irrisolti dubbi amletici del tipo “Visti gli anelli che porta, sarà fidanzato o altrimenti sentimentalmente impegnato?”, inopportuni attacchi di panico da bad English, piccole gioie segrete come sentire (e capire) “I look like a balloon” in un camerino di prova, esplosioni di felicità saltellando alle Cheilidh, pinte e mezze pinte, sidro e birra, sorry, please, thanks, yes e no, come on, see you later, hy e bye … e sì certo, immancabili, anche le solite palle, edimburghesi però!
Sardara, Estate 2000
Foto di Graeme Ross