Lettura psicologica della letteratura e del teatro – un limite dell’accostamento alla letteratura e al teatro

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C’è una malattia nella critica letteraria italiana che diventa costume nell’accostamento dei più alla letteratura: l’idea che nel racconto, nella poesia, conti soprattutto la cosa che si dice, la trama, la psicologia dei personaggi o il sentimento del poeta. La forma, i modo di presentare la cosa, la lingua che si adopera, sono elementi secondari: diventano principali nell’esteta, colui che cura la forma senza avere niente da dire. Ma nell’opinione comune è sentito poi come vuoto estetismo qualunque attenzione alla scrittura. Perfino molti degli editor, anche di case editrici cospicue, che dovrebbero per ufficio salvaguardare il livello letterario della scrittura, correggono invece le pagine a loro avviso troppo complesse per il lettore medio, e spingono per una scrittura anonima, banale, ma immediatamente comprensibile. Con il risultato che i romanzi che vengono pubblicati, ma perfino le raccolte di poesia, si assomigliano tutti. Leggi poche pagine e capisci come va la storia, com’è raccontata la vicenda, espressa l’immagine poetica. Quanti danni finiscono per fare alla lettura dei libri queste impostazioni della lettura letteraria. Perfino la lettura dei classici ne esce ridotta, immiserita. L’interpretazione di Shakespeare, ma del teatro in genere, e anche della letteratura, se ubbidisce agli schemi della lettura psicologica e ideologica di un testo, finisce per fraintenderlo, fraintenderne, soprattutto, la complessità e la molteplicità di letture possibili da cui è possibile accostarlo. Tra l’altro si schematizzano campi di ricerca, come la psicologia e l’elaborazione delle idee, che sono strumenti assai complessi d’indagine. Ricordo che nei miei anni liceali lessi un commento a una tragedia di Euripide che già allora suscitò in me perplessità e rifiuto. Si tratta di Medea, l’edizione in greco, commentata da Giuseppe Ammendola.

Sul lungo – e straordinario – confronto tra Medea e Giasone il commentatore osserva che il grande drammaturgo – bontà sua! si tratta di Euripide! – qui si lascia trascinare dal piacere tutto ateniese dei dibattiti processuali, perché una donna travolta dalla passione non può ragionare così lucidamente e difendere le proprie ragioni con così sottile analisi delle contraddizioni in cui incorre l’oppositore. Ammendola, in questi caso, fa due errori: uno, credere che Euripide imposti il contrasto come contrasto psicologico e non come confronto di due impostazioni di vita; due, che, anche ammesso che il contrasto sia psicologico, ma chi gli dice che una donna innamorata non possa analizzare lucidamente le ragioni dell’amante? Ammendola qui si dimostra non solo uno scarso conoscitore dei meccanismi teatrali, della tragedia greca, ma anche un superficiale e dilettantesco orecchiante di psicologia. Ciò che comunque infastidisce di queste lettura è la supponenza di beccare in fallo un grande drammaturgo, un grande scrittore. Come quando alcuni commentatori osservano che i cori della cerimonia nuziale nella Mirra di Alfieri sono convenzionali e mediocri. Ma perché avrebbero dovuto essere poetici e originali? La convenzionalità del rito fa tragico contrasto con la situazione emotiva della ragazza, che tutto è tranne che convenzionale. La mediocrità dei cori ha la funzione drammaturgica di mettere in risalto la singolarità della passione di Mirra. È un po’ lo stesso errore di prospettiva interpretativa che si compie quando si rimprovera a Verdi di aver scritto una marcetta da banda di paese per l’ingresso di Duncano nel castello di Macbetto. Ma quale marcia avrebbe potuto essere più efficace a rappresentare l’avvio del Re al suo macello? Beethoven si comporta nello stesso modo quando fa precedere nel Fidelio l’ingresso di Pizarro, il malvagio e corrotto governatore del carcere, da una marcetta anch’essa insignificante. Il male, l’orrore, non si presentano quasi mai nella vita con una faccia terribile, bensì con la faccia della normalità, e proprio questo è terribile: che l’assassino, il criminale, il tiranno possa essere uno “normale” come noi. Messaggio tragicissimo. Lo sfrutta già Eschilo quando Clitennestra invita Cassandra a entrare nel palazzo, e le parla come se la invitasse a un festino. Mi chiedo: ma certi commentatori, quando affrontano la lettura di opere così complesse, hanno idea della molteplicità di letture che un’opera letteraria o teatrale permette, anzi esige? Ma, soprattutto, hanno idea della complessità del reale, di cui il teatro vuole farsi insieme specchio e interpretazione?

- 24/07/2022
TAGS: critica

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