Il Teatro Arcobaleno di Roma mette in scena ogni anno, di stagione in stagione, i classici del teatro antico greco e latino, e i classici del teatro moderno e contemporaneo. Centro stabile del classico, la sottoindicazione esplicativa. Vincenzo Zingaro è il suo direttore artistico. La stagione, cominciata il 17 ottobre, ha visto andare in scena Io, Ettore Petrolini, di Giovanni Antonucci, interpretato da Antonello Avallone; Stéfano, di Armando Discépolo, un classico del teatro argentino scritto dal fratello di uno dei più fecondi autori del tango, Enrique Santos Discépolo. Sono seguiti uno spettacolo dedicato a Pirandello segreto, di Maricla Boggio, e La morte della Pizia di Friedrich Dürrenmatt, adattata per il teatro e interpretata da Patrizia La Fonte insieme a Maurizio Palladino,regia di Giuseppe Marini. Ne abbiamo scritto la settimana scorsa. Tra i prossimi spettacoli vedremo dal 10 al 19 gennaio un Volpone di Ben Jonson, con la regia di Carlo Emilio Lerici, i Menecmi di Plauto, dal 21 febbraio al 9 marzo, regia di Zingaro, l’Elettra di Sofocle per la regia di Giuseppe Argirò dal 14 al 23 marzo, I cavalieri di Aristofane messi in scena dal 28 marzo al 6 aprile da Cinzia Maccagnano e l’Adelchi di Manzoni messo in scena dal 9 al 18 maggio dallo stesso Zingaro. È attualmente in scena fino al 15 dicembre la Mandragola di Machiavelli, adattamento e regia di Nicasio Anzelmo. Impegno da far tremare le vene e i polsi. Testo simbolo del teatro rinascimentale italiano, e una delle commedie più belle mai scritta, la Mandragola costruisce attraverso l’imitazione della commedia classica antica una macchina teatrale perfetta che in realtà porta sulla scena la società fiorentina contemporanea. A Machiavelli riesce alla perfezione l’operazione che un secolo dopo costituirà l’ossatura della invenzione teatrale di Molière: adottare le forme del teatro classico per rappresentare il moderno, l’oggi. È in buona compagnia. Tutto il teatro comico italiano del cinquecento, da Ariosto a Bruno, da Bibbiena ad Aretino, da Caro agli Intronati di Siena che scrissero la bellissima commedia Gli ingannati, modello della Dodicesima notte di Shakespeare, è un cantiere di sperimentazione teatrale che costituisce il fondamento di tutto il teatro europeo,fino a Shakespeare, appunto, e oltre esi chiude con un altro capolavoro: Il candelaio di Giordano Bruno. Dopo di che il teatro comico italiano si radicalizza nell’invenzione del teatro d’attore, la commedia dell’arte, nei cui ranghi fece il suo apprendistato perfino un Molière. Snobbata dai letterati italiani la commedia dell’arte si fa modello di teatro fuori d’Italia. Una storia che la cultura italiana vede ripetersi più volte. Pirandello, osannato a Berlino e a Parigi, è fischiato a Roma e a Milano. Goldoni deve lasciare Venezia per Parigi. E a Parigi stampa Alfieri le sue tragedie. Machiavelli non sarebbe Machiavelli se anche quando scrive una commedia “facetissima”, come recita il frontespizio della prima edizione, non affidi però alla facezia una critica spietata dei costumi italiani. Critica che fa colpo anche oggi, se la rappresentazione diretta da Sergio Tofano, nei primi anni ’60 del secolo scorso, vide la polizia interrompere lo spettacolo per oltraggio alla religione di Stato. Strano oltraggio per un paese la cui Costituzione non prevede nessuna religione di Stato. C’è sempre qualcuno, in Italia, ch’è più realista del Re.
Sergio Tofano, Messer Nicia
Nicasio Anzelmo, il regista si questa Mandragola, sceglie di prendere alla lettera la facezia, di accentuarla, anzi, e di fare scivolare l’azione dalla commedia in commedia dell’arte, anzi in una vera e proprio farsa. Chiede soccorso anche al musical e alla rivista. Ci sono musiche, canzoni, e i personaggi danzano come in un cabaret. Musiche, del resto, gradevolissime di Giovanni Zappalorto. Il messaggio sociale della commedia si fa perciò pretesto di una festa ridanciana, il vecchio leguleio è una macchietta, il frate avido di denari e corrottissimo è un tipo da barzelletta, l’intrigante Ligurio un faccendiere di quartiere, la moglie del vecchio una svampita che prende senno solo quando capisce che cosa sia davvero il sesso. Ci può stare, e si ride anche. Gli attori sono tutti bravissimi, perfetti nel rispettare i ritmi scatenati della farsa. Ma è questa la Mandragola? il testo non ha altro scopo che farci ridere con una beffa scollacciata?
Callimaco e Ligurio
C’è chi ha letto nella commedia il negativo di ciò che Machiavelli enuncia nel Principe. Forse una lettura troppo intellettuale. Ma è pur vero che l’azione dei borghesi benestanti della commedia riguardo ai propri interessi non è meno “effettuale” di quella dei principi che governano uno Stato. Nessuna idea, nessuna morale li guida, ma solo la ricerca del proprio tornaconto, in cui sia il truffatore Ligurio sia il buon frate Timoteo vanno d’accordo. È proprio tornaconto anche la voglia di un erede, possibilmente il proprio figlio, così come trovare a letto il massimo piacere, e allora buonanotte alla fedeltà coniugale. Una società senza idee e senza morale: la stessa descritta nel Principe: a seguire, infatti, la morale si va incontro alla propria “ruina”, in un mondo in cui nessuno agisce per la morale ma solo per il proprio tornaconto. Ecco, la lettura farsesca fa perdere un po’ tutto questo. E forse Machiavelli, allora, meritava una lettura più rispettosa. Ma lo spettacolo poi funziona, perché gli attori conoscono e sanno realizzare a pennello i tempi della farsa, sono precisi come le lancette di un orologio. Davvero uno più bravo della altro, Domenico Pantano, un Nicia ch’è il ritratto perfetto dell’idiozia; Anna Lisa Amodio, la disincantata Sostrata; Antonio Bandiera, fra’ Timoteo, un frate paffuto e godereccio; Chiara Barbagallo, Siro, un servo servizievole, ma non per questo meno critico; Laura Garofoli, la bella e “semplice” Lucrezia; Nicolò Giacalone, un Ligurio dalla mimica strabiliante; Matteo Munari, impersona infine magnificamenteil bel Callimaco infoiato: è proprio il giovane di cui Nicia fa nella commedia il ritratto: “tu non vedesti mai le più belle carni! bianco, morbido, pastoso”, certo che Lucrezia cambia subito opinione, quando se lo trova nudo nel letto.
La farsa finisce bene. Del resto, perfino Alberto Lattuada, quando decise di farne un film con Totò e Rosanna Schiaffini, nel 1965, imbroccò a tutta vela il mare della farsa. Il pubblico di fatti se ne compiace e applaude tutti con calore. Ma per vedere Machiavelli sulla scena così come lui la sua scena l’ha pensata, complessa, intricata, divertente sì, ma anche irridente, irrispettosa, intollerante d’ogni convenzione, forse, bisognerà aspettare altri tempi, e un paese meno farsesco di quello in cui oggi viviamo. Un’osservazione, in margine, sulla lingua. Machiavelli sceglie di scrivere la commedia in prosa. Ariosto, che è il modello di tutto il tatro comico europeo almeno fino a Molière, scrive le proprie commedie in endecasillabi sdruccioli, come trasposizione nella metrica italiana del senario giambico latino. Shakespeare scrive le sue commedie in versi misti a prosa, come le tragedie. Molière e Goldoni talora le scrivono in versi talora in prosa. Ma l’esempio di Machiavelli, preceduto di pochi anni dal Bibbiena con la Calandria, anch’essa in prosa, sarà per lo più seguito da tutti gli altri scrittori italiani di commedie del Cinquecento. La novità maggiore della Mandragola sta tuttavia nella lingua: che è il fiorentino parlato. Molte espressioni le si ascoltano ancora oggi a Firenze, per esempio le indiczioni di luogo: costì. Anche questa scelta fu seguita dai drammaturghi successivi, nella commedia. Goldoni ne fu maestro, tanto nelle commedie venziane che in quelle scritte in italiano, che è sempre l’italiano parlato dall’aristocrazia e dalla borghesia nei salotti del tempo. In una bellissima commedia, Le baruffe chiozzotte, Goldoni sperimenta addirittura la parlata popolare di Chioggia. È uno degli aspetti più innovativi della commedia italiana. Al punto che ancora nel XX secolo qualche critico rimprovera a Goldoni di usare una lingua scorretta perché piena di francesismi. Ma la bellezza del teatro italiano, anche quando sopravvenne la commedia dell’arte, nella quale le maschere parlano ciascuna la lingua della propria regione, stava proprio nel fatto che questo multilinguismo non solo era funzionale alla struttura della commedia, che a sua volta così si faceva specchio della realtà lingusitica del paese, ma era compresa dappertutto, a Milano come a Firenze come a Roma come a Napoli e a Torino. Ci riflettano gli scrittori di oggi, la comprensione di un testo non ha biogno di una lingua semplice, banale, piatta, ma di una lingua viva, e naturalmente la lingua viva non è mai quella livellata su un unico registro lessicale ed espressivo.
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